OVH sfida i grandi del cloud sul terreno della tecnologia e dei valori
Da sempre apprezzato come provider di servizi di hosting e colocation, il provider francese OVH ha negli ultimi anni spostato la sua offerta verso il cloud, proponendosi ad aziende medie e grandi come fornitore di infrastrutture “as-a-service” e – con una rete di 28 datacenter in 12 siti sparsi in 4 continenti e una rete proprietaria in fibra ottica – apre ora la competizione con gli “hyperscaler” americani e cinesi.
Cogliendo l’occasione dei recenti annunci fatti al VMworld di Barcellona, Computerworld ha intervistato Michel Paulin, CEO di OVH dallo scorso agosto, quando è stato chiamato dal Presidente del board e fondatore dell’azienda Octave Klaba per eseguire il piano strategico “SMART Cloud”, che alle qualità tecniche aggiunge pratiche e valori etici che oseremmo definire “di stampo europeo”. L’acronimo SMART, che si traduce bene in italiano, sta infatti per Semplice, Multilocale, dal prezzo Accssibile, Reversibile (che non costringa gli utenti a stare sulla piattaforma) e Trasparente. “Gli standard aperti sono nel DNA di OVH e siamo fortemente motivati nella compatibilità con essi. Migrare le applicazioni nel cloud non deve significare chiuderle in una prigione”, afferma Paulin.
OVH è nata e si è sviluppata soprattutto attorno ai servizi di hosting e colocation, ma da dieci anni circa si è mossa pesantemente nel settore del cloud. “Copriamo tutto lo spettro dei servizi internet per aziende di ogni tipo, dalla più piccola alla large enterprise, con servizi che vanno dall’hosting, al public e private cloud, al bare metal”, dice Paulin, spiegando che l’azienda ha di recente ridisegnato il suo portfolio secondo quattro filoni di servizio:
- OVH Market (web hosting e servizi semplici, supportati dai partner locali)
- OVH Spirit (Infrastructure as a Service)
- OVH Stack (public cloud basato su standard aperti)
- OVH Enterprise (soluzioni e prodotti per abilitare la trasformazione digitale delle grandi e grandissime aziende, con partner come VMware, Veeam Intel e altri)
“Vediamo una forte accelerazione delle aziende nella direzione del cloud, spinta dalla trasformazione digitale del business, con diversi approcci. Uno di questi è l’hybrid cloud, che prevede uno spostamento dei carichi dalle infrastrutture on-premises a quelle virtualizzate nel cloud, o in più cloud diversi, e devono farlo senza interrompere l’operatività delle applicazioni. La partnership con VMware, della quale siamo tra i pochi partner con certificazione VMware Cloud Verified (il più grande in quanto a numero di clienti), unita al fatto di avere acquisito proprio da VMware il ramo vCloud Air, per la fornitura di servizi di cloud ibrido, ci permette di garantire una migrazione delle macchine virtuali tra on-prem e cloud in modo veloce e senza downtime, sfruttando VMware HCX”.
L’Italia è per OVH un Paese molto importante, che sta crescendo a ritmi molto elevati (30% lo scorso anno), e l’azienda sta guardando con molta attenzione lo spostamento verso il cloud dei carichi di lavoro delle aziende nostrane. Si sta quindi valutando l’apertura di un data center locale, anche se non vi sono ancora certezze sulle tempistiche. Lo scorso anno OVH ha inaugurato due nuovi data center OVH in Europa e due negli Stati Uniti.
Parlando di USA, viene spontaneo confrontare le dimensioni dei player del mercato digitale d’Oltreoceano con quelli europei, pochissimi dei quali riescono a diventare piattaforme davvero globali.
Per Paulin, il problema delle aziende digital europee non è da ricercarsi in minori doti imprenditoriali o tecnologiche: “ci sono ottimi ingegneri e tecnici italiani, francesi o tedeschi, e scuole di buon livello: a Milano e Tornio avete alcune tra le migliori università tecniche al mondo”. Il problema si presenta dopo l’idea e la realizzazione, nel far crescere la start-up a una velocità che sia concorrenziale, per via della necessità di adattarsi a diverse lingue, sistemi normativi e fiscali necessari per arrivare a un numero di persone paragonabile a quello che Stati Uniti o Cina possono raggiungere con una lingua, un sistema normativo e un regime di tassazione.
“Esiste anche un problema di tassazione. Alcuni player americani non giocano con le stesse regole dei concorrenti europei per quanto riguarda il regime di tassazione, e le politiche fiscali europee lo permettono. Potremmo davvero fare molto di più: abbiamo moltissimi talenti, molti dei quali sfortunatamente emigrati negli USA perché vedono che là è più facile fare business. L’Europa dovrebbe riflettere su questo e creare, come entità unica, le condizioni perché le proprie aziende e tecnologie possano crescere e svilupparsi. Questo è per il momento ancora un sogno”.