Big Data: poco conosciuti, poco sfruttati… e abbastanza temuti
Big Data è un termine entrato ormai nel vocabolario comune ma, nonostante questo, sono ancora poche le persone che dichiarano di sapere con esattezza di cosa si stia parlando (15%), con un timido 28% che dichiara di averne sentito parlare ma che preferisce non sbilanciarsi sul significato. Alla richiesta di descrivere con parole proprie il termine Big Data, c’è chi lo associa alla personalizzazione di servizi e chi invece, un po’ preoccupato e dice che sia sinonimo di “affari nostri nelle mani degli altri”.
La ricerca Retail Transformation, realizzata dal Digital Transformation Institute e dal CFMT in collaborazione con SWG e Assintel, mette in evidenza anche alcune incongruenze dei consumatori rispetto ai Big Data. Se a fronte di un 70% di persone interessate ad avere una app che consenta di sapere, partendo dalla foto di un prodotto, qual è il negozio più vicino in cui poterlo acquistare, c’è un 52% di intervistati che si dichiara poco o per niente intenzionato a cedere i propri dati.
C’è insomma il desiderio di vedere personalizzato un servizio, ma c’è anche la preoccupazione rispetto alla cessione dei dati necessari a fornire informazioni mirate. Preoccupazione confermata anche dal 49% degli intervistati dichiaratisi, però, interessati ad avere una app in grado di creare un capo di vestiario o un servizio su misura in base alle informazioni sul proprio stile di vita raccolte tramite profilazione.
Altra contraddizione in termini quella che si registra a fronte della scelta tra privacy (e quindi mancata cessione di dati) e sconti, con il 50% degli intervistati (magari le stesse che usano servizi gratuiti a fronte di concessione di dati) che dicono di preferire la riservatezza. A provare servizi e applicazioni che sfruttano i Big Data per personalizzare l’interazione con i negozi è solo il 47% degli intervistati, con un 39% che dichiara di non aver mai fatto una esperienza simile, anche se nel 37% dei casi c’è interesse.
Big Data in azienda
Lato azienda la situazione rispetto all’uso di Big Data non è certo rosea. Il 41% delle persone intervistate, infatti, dichiara che nelle proprie aziende si fa un uso nullo o molto limitato di applicazioni che li utilizzano, con un altro 41% che afferma di farne un utilizzo medio. Situazione diversa nel caso in cui si chieda cosa riservi il futuro, visto che in circa un’azienda su due è previsto l’ingresso di applicazioni basate sui Big Data, mentre solo un 19% pensano di non investirci per niente.
Con un panorama temporale che va oltre i tre anni, le aziende affermano di voler utilizzare Big Data in particolare in marketing, comunicazione e assistenza clienti (14%), contabilità, controllo di gestione, finanza (11%) e produzione di beni ed erogazione del servizio. Prendendo a riferimento periodi più brevi, entro l’anno le aziende intendono usare Big Data in progettazione, ricerca e sviluppo (46%) e in gestione personale e organizzazione (35%) oltre che nel controllo di qualità (32%).
Quando si indaga il grado di complessità dell’integrazione dei Big Data in azienda, particolari problemi si evidenziano in progettazione, ricerca e sviluppo (62%), controllo di qualità e produzione di beni ed erogazione di servizi (57%).
“La contraddizione che emerge dai dati di ricerca, commenta Stefano Epifani, presidente Digital Transformation Institute, esprime tutta la complessità del momento rispetto alla relazione tra le persone e questo universo di tecnologie che affacciandosi con prepotenza nella società apre opportunità ma, contestualmente, ci pone di fronte a nuove minacce. Chi dice di essere preoccupato per l’uso che le piattaforme fanno dei dati degli utenti e contestualmente li cede per ottenere sconti è un po’ come chi si dice preoccupato dell’inquinamento ma va in automobile a comprare il giornale. La nostra società è sempre più complessa e le persone reagiscono a questa complessità spesso con comportamenti contraddittori, nei quali il “voler essere” non di rado è profondamente diverso da come i comportamenti quotidiani esprimono ciò che siamo in realtà. Ciò dipende dal fatto che se il “voler essere” è collegato a percezione che sentiamo giuste ma riferite a rischi che vediamo lontani, l’essere risponde ad un sistema di bisogni che percepiamo come più immediato. E quindi ecco che possiamo contemporaneamente dirci preoccupati del clima, e andare a comprare la frutta in automobile per non fare 100 metri a piedi. Lo stesso succede con i big data: non ci rendiamo conto degli impatti immediati e concreti che ha la cessione dei nostri dati”.