Smart Working: 5,35 milioni di italiani lavoreranno da remoto nel “new normal”
Nela fase più acuta dell’emergenza Covid in marzo e aprile, in Italia il 97% delle grandi imprese, il 94% degli enti pubblici e il 58% delle PMI ha messo in atto iniziative di Smart Working coinvolgendo un totale di 6,58 milioni di lavoratori. Si tratta di circa un terzo dei lavoratori dipendenti italiani, e un numero oltre dieci volte superiore ai 570mila smart worker censiti nel 2019. Di questi 6,58 milioni, 2,11 lavorano nelle grandi imprese (54% del personale totale), 1,85 milioni nelle PA (58%), 1,13 milioni nelle PMI, e 1,5 milioni nelle microimprese sotto i 10 addetti.
Successivamente, a settembre 2020, tra rientri consigliati e obbligatori, difficoltà e incertezze nell’apertura delle sedi di lavoro, gli smart worker sono scesi di numero, ma comunque restando sopra i 5 milioni (5,06 per la precisione).
Ma quel che è più importante è che lo Smart Working è ormai entrato nella quotidianità degli italiani ed è destinato a rimanerci: al termine dell’emergenza si stima che i lavoratori agili, che lavoreranno almeno in parte da remoto, saranno 5,35 milioni, di cui 1,72 milioni nelle grandi imprese, 920mila nelle PMI, 1,23 milioni nelle microimprese e 1,48 milioni nelle PA.
Per adattarsi a questa “nuova normalità” del lavoro il 70% delle grandi imprese aumenterà le giornate di lavoro da remoto, portandole in media da uno a 2,7 giorni alla settimana, e una su due modificherà gli spazi fisici. Quanto alla PA, il 48% degli enti avvierà progetti di smart working, e nel 47% si lavorerà da remoto in media 1,4 giorni alla settimana, rispetto a una giornata media attuale.
“Una trasformazione che in tempi normali avrebbe richiesto anni”
Sono tutti dati diffusi qualche giorno fa dal rapporto annuale dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, stavolta più che mai attesi: “L’emergenza Covid19 ha accelerato una trasformazione del modello di organizzazione del lavoro che in tempi normali avrebbe richiesto anni, dimostrando che lo Smart Working può riguardare una platea potenzialmente molto ampia di lavoratori, a patto di digitalizzare i processi e dotare il personale di strumenti e competenze adeguate – ha detto Mariano Corso, Responsabile scientifico dell’Osservatorio -. Ora occorre ripensare il lavoro per non disperdere l’esperienza di questi mesi e per passare al vero e proprio Smart Working, con maggiore flessibilità e autonomia nella scelta di luogo e orario di lavoro, fondamentali per spingere una maggiore responsabilizzazione sui risultati”.
“Nell’emergenza abbiamo acquisito rapidamente consapevolezza dei vantaggi del lavoro agile e abbiamo avuto l’opportunità di sperimentarlo su vasta scala, pur se in una forma atipica – dice Fiorella Crespi, Direttore dell’Osservatorio -. Il rischio però è di trattarlo come un obbligo normativo o una misura temporanea ed emergenziale, e invece è un’occasione storica che ci porterà verso un “New Normal”, con benefici non soltanto nel lavoro, ma sull’intero ecosistema di servizi, città e territori”.
In smart working anche operatori di call center, addetti allo sportello e operai
Come anticipato, praticamente tutte (97%) le grandi imprese italiane hanno attuato iniziative di smart working durante il lockdown, coinvolgendo oltre 2 milioni di lavoratori, cioè oltre la metà (54%) del loro personale complessivo. I settori più attivi sono stati finance e ICT, meno attivi retail e manifatturiero. Sono state coinvolte anche figure professionali che prima della pandemia non erano considerate idonee allo smart working: operatori di call center (33% delle grandi imprese), addetti allo sportello (21%), e addirittura operai specializzati (17%), grazie alla digitalizzazione dell’accesso ai macchinari.
Chi aveva già iniziative di smart working in corso prima dell’emergenza ha potuto coinvolgere più lavoratori: nelle imprese private il 59% dei dipendenti (contro il 36% di chi non aveva mai fatto progetti di smart working), nella PA il 70% contro il 55%.
Dotazioni tecnologiche: la corsa a pc, accesso remoto e tool di collaborazione
In generale, però, grandi imprese, PMI e PA si sono fatte trovare impreparate al momento dell’emergenza sul piano delle dotazioni tecnologiche.
Tra le grandi imprese, il 69% ha dovuto aumentare la disponibilità di pc portatili e altri strumenti hardware, il 65% di sistemi per accedere da remoto in sicurezza agli applicativi aziendali e il 45% di strumenti per la collaborazione e comunicazione. Gli strumenti più introdotti sono stati pc portatili (nel 26% del campione) e tool per le videoconferenze (16%). Il 38% ha dato ai lavoratori la possibilità di utilizzare i dispositivi personali.
Quanto alle PMI, la metà ha dovuto sospendere l’attività e non si è quindi attivata sulle tecnologie. Quelle che lo hanno fatto hanno puntato su hardware (15%), software per la collaborazione a distanza (14%), sistemi d’accesso sicuro ai dati da remoto (14%), o hanno incoraggiato l’uso dei dispositivi personali (14%).
Infine gli enti pubblici: più di 4 su 10 hanno dovuto incrementare gli strumenti hardware a disposizione del personale (42%), quasi la metà è intervenuta sui software (49%), soprattutto applicazioni di videoconferenza (60%), sistemi per l’accesso ai dati da remoto in sicurezza (come le VPN, 46%) e pc portatili (29%). 3 enti su 4 hanno incoraggiato i dipendenti a usare i dispositivi personali, a causa di limitazioni di spesa e arretratezza tecnologica. Il 43% non ha integrato la dotazione personale dei dipendenti, che hanno dovuto attrezzarsi con proprie risorse, e solo il 38% si è attivato per garantire l’accesso sicuro ai dati da remoto.
Gli impatti organizzativi: problemi e benefici
“Le modalità di lavoro sperimentate durante l’emergenza sono state per certi versi più vicine al telelavoro che a un vero Smart Working”, sottolineano i ricercatori del Polimi. Tra i maggiori problemi segnalati, i lavoratori delle grandi imprese indicano la difficoltà a separare il tempo del lavoro e quello privato (58%), la disparità del carico di lavoro fra alcuni lavoratori meno impegnati e altri sovraccaricati (40%), impreparazione dei manager a gestire il lavoro da remoto (33%) e limitate competenze digitali del personale (31%). Nelle PA, il problema più sentito è invece l’inadeguatezza delle tecnologie a disposizione (46%), poi la disparità nel carico di lavoro (39%), il work-life balance (33%) e le scarse competenze digitali (31%).
Quanto invece ai benefici percepiti ci sono il miglioramento delle digital skills dei dipendenti (71%), l’eliminazione dei pregiudizi sul lavoro agile (65%), il ripensamento dei processi aziendali (59%) e l’aumento della consapevolezza sulla capacità di resilienza della propria organizzazione (60%). Nelle PA il beneficio più sentito è l’opportunità di sperimentare nuovi strumenti digitali (56%), seguito dal miglioramento delle competenze digitali dei lavoratori (53%), e dal ripensamento dei processi aziendali (42%).
“Nuova normalità”: solo l’11% tornerà a lavorare come prima
Con la fine del lockdown, aziende e PA hanno gradualmente riaperto gli uffici, riadattando spazi e orari per mantenere il distanziamento, integrando il lavoro in sede con quello da remoto. Il 66% delle grandi imprese e l’81% delle PA ha fatto rientrare in sede il personale già fra maggio e giugno, e solo il 7% delle imprese e l’1% delle PA a fine settembre continuava a privilegiare il lavoro da remoto. A settembre, di conseguenza, il numero complessivo di smart worker come anticipato è sceso a quota 5,06 milioni.
Il nuovo lockdown che inizierà domani ovviamente non è stato analizzato nel report, e in ogni caso inciderà meno sulle attività delle imprese rispetto a quello di marzo-aprile, anche perché non riguarda tutto il paese con le stesse modalità. Quel è che è interessante in prospettiva sono le considerazioni dell’Osservatorio Smart Working su come sarà il dopo, il “new normal” quando finalmente l’emergenza terminerà.
Le organizzazioni, spiegano i ricercatori, si stanno attrezzando per tradurre le nuove abitudini e aspettative dei lavoratori in un nuovo approccio al lavoro. Una grande impresa su due interverrà sugli spazi fisici al termine dell’emergenza (51%), differenziandoli (29%), ampliandoli (12%) o riducendoli (10%); il 38% non prevede riprogettazioni ma cambierà le modalità d’uso; e solo l’11% tornerà a lavorare come prima. Il 36% delle grandi imprese modificherà i progetti di Smart Working in corso e digitalizzerà i processi.
Ben il 70% di chi ha un progetto di lavoro agile aumenterà le giornate in cui è possibile lavorare da remoto, passando mediamente da 1 giorno alla settimana prima della pandemia a 2,7 giornate. Il 65% coinvolgerà più persone nelle iniziative, il 42% includerà profili prima esclusi, il 17% agirà sull’orario di lavoro.
Per la PA le prime misure saranno introdurre progetti di Smart Working (48%), digitalizzare processi e attività (42%) e incrementare le tecnologie in uso (35%). Anche qui aumenterà il personale in smart working (72%), che prima dell’emergenza era solo il 12%, e le giornate di lavoro agile (47%), passando da una media settimanale inferiore a un giorno a circa 1,4 giorni a settimana.
Smart Working Award a Credem, Cerence, e Regione Lazio
L’Osservatorio ha anche assegnato gli “Smart Working Award” 2020 alle organizzazioni che ha selezionato per l’innovatività dei loro progetti di Smart Working.
Il vincitore nella categoria grandi imprese è una banca, Credem, per un progetto di smart working che durante l’emergenza ha esteso il lavoro completamente da remoto a tutti i dipendenti – 5mila lavoratori – e ha previsto una giornata agile anche per il front office, escluso dalle precedenti iniziative.
Nella categoria PMI ha vinto Cerence, software house di Torino specializzata nell’automotive, per aver favorito fin dalla nascita, nel 2019, un’organizzazione del lavoro fondata sul raggiungimento di obiettivi e su un clima di fiducia fra manager e collaboratori, facendo dello smart working un punto di forza del proprio business.
Infine Regione Lazio ha ricevuto il premio nella categoria PA, per un progetto che ha permesso di affrontare l’emergenza senza eccessive criticità, grazie a razionalizzazione degli spazi, percorsi di formazione e change management, revisione del sistema di valutazione e monitoraggio delle performance.