Privacy e Big Tech, l’insostenibile coerenza della UE
Nell’Europa Unita c’è ancora poca uniformità riguardo gli atteggiamenti da tenere nei confronti delle grandi multinazionali dell’IT, le Big Tech come sono solitamente chiamate. E più che il bene comune qualche volta sembra prevalere l’interesse privato. Così, mentre da una parte, nella Relazione Annuale presentata in questi giorni al Parlamento italiano, il Presidente Nazionale dell’Antitrust Roberto Rustichelli auspica la rapida introduzione di una global minimum tax del 15%, dall’Irlanda giunge invece notizia dell’approvazione di un emendamento che vieta la pubblicazione di informazioni sui procedimenti avviati dalla Data Protection Commission (DPC). Una norma in cui molti vedono un’importante limitazione della libertà di espressione, che potrebbe far diventare reato anche solo citare i comportamenti scorretti delle Big Tech.
Una disposizione dell’ultimo minuto che tutela le Big Tech
La nota organizzazione austriaca Noyb, che ha come mission la difesa della privacy, riporta: “Con un sorprendente emendamento dell’ultimo minuto, il governo irlandese ha aggiunto una disposizione all’innocuo Courts and Civil Law (Miscellaneous Provisions) Bill 2022 del settembre 2022 che consente al DPC irlandese di dichiarare riservate quasi tutte le sue procedure. La nuova sezione 26A rende, quindi, reato la maggior parte delle segnalazioni su procedure o decisioni del DPC. Non è più consentito nemmeno parlare di rivendicazioni stravaganti da parte delle Big Tech o di procedure inique che spesso riguardano milioni di utenti. Diversi gruppi per i diritti civili hanno chiesto di fermare la sezione 26A, ma evidentemente non sono stati ascoltati”.
La sezione 26A si va a integrare al Digital Protection Act del 2018 e copre qualsiasi informazione inerente a un procedimento. Ciò significa che le parti coinvolte nel procedimento stesso non sono autorizzate a parlare delle fasi o dei contenuti. Questo anche se le Big Tech dovessero assumere posizioni estreme o agire in modo illegale. Secondo l’avvocato Max Schrems, Honorary Chairman di Noyb, “più volte in passato, le grandi aziende tecnologiche come Google o Meta hanno insistito sul fatto che tutti i loro contributi sono confidenziali, ma non avevano alcuna base legale per tali affermazioni. La nuova sezione 26A crea invece per la prima volta tali regole andando a coprire qualsiasi persona (inclusi cittadini, organizzazioni no-profit e giornalisti) e qualsiasi informazione. Il pubblico è tagliato fuori da qualsiasi informazione sulle procedure, diventa quindi disponibile solo la narrazione ufficiale del DPC”.
Impediti gli scambi di informazioni
In pratica, d’ora in poi le uniche informazioni che potranno essere divulgate saranno quelle che arrivano dal garante irlandese o per le quali si è ottenuto il permesso alla pubblicazione.
Il fatto che da tempo, per facilitazioni fiscali, molte Big Tech abbiano sede legale in Irlanda fa nascere qualche dubbio su eventuali scopi reconditi dell’emendamento 26A. Soprattutto se si considera che ogni futura denuncia contro una Big Tech con sede in Irlanda dovrà essere presentata alla DPC. Ma, a causa del nuovo emendamento, potrà essere impedito ogni successivo scambio di informazioni sui procedimenti in corso tra i Paesi che hanno sporto denuncia e la DPC perché tali informazioni sono confidenziali e quindi non divulgabili.
Una sleale concorrenza fiscale
Da un Paese come l’Irlanda dove le tasse per le Big tech sono ridotte al minimo a un altro Paese, come l’Italia, dove invece si vuole che le multinazionali versino un adeguato contributo fiscale, così da competere in maniera equa con le realtà locali.
In tal senso, presentando la relazione annuale 2022 al Parlamento, il Presidente nazionale dell’Antitrust Roberto Rustichelli ha affermato: “La concorrenza fiscale sleale tra gli Stati membri continua a essere una forma di sovvenzione indiretta che costituisce uno dei più gravi fattori di distorsione del level playing field e, quindi, una minaccia ad eque condizioni competitive all’interno del mercato unico”.
Rustichelli ha ricordato che l’introduzione di una global minimum tax pari ad almeno il 15% a carico delle imprese di maggiori dimensioni (soprattutto le Big Tech, ma non solo), con cui si era chiuso il vertice del G20 a Venezia nel luglio 2021, non ha finora prodotto i risultati attesi. “È un tema che ho posto con forza sin dal mio insediamento e che a tutt’oggi riveste carattere di urgenza – ha precisato Rustichelli – L’Autorità continua ad auspicare un più deciso impegno sull’armonizzazione fiscale dei Paesi membri poiché questo preliminare ostacolo alla leale competizione non lede soltanto il confronto tra le imprese, ma mina alla radice la solidità del progetto europeo”.
Le istruttorie contro Google e Apple e la regolamentazione dell’AI
Il Presidente nazionale dell’Antitrust è entrato anche nel dettaglio in relazione all’impegno posto nel valutare le modalità di raccolta e di utilizzo dei dati personali da parte delle piattaforme digitali. Si è riferito in particolare all’istruttoria in corso sul “rifiuto di Google di concedere l’interoperabilità nei confronti di un operatore innovativo che consente agli utenti di ottenere una remunerazione dai propri dati, attraverso l’esercizio del diritto alla loro portabilità”.
Rustichelli ha ricordato anche che “le regole che definiscono le modalità di acquisizione dei dati negli ecosistemi digitali sono al centro di una seconda indagine istruttoria, nei confronti di Apple, che sembrerebbe applicare agli sviluppatori di app una politica sulla tracciabilità dei dati di navigazione degli utenti più restrittiva di quella applicata a sé stessa”.
Tutti i casi digitali sono condotti dall’Autorità in costante coordinamento con la Commissione europea e le autorità degli altri Stati Membri, nell’ambito della Rete Europea di Concorrenza (ECN). “La visione comune che la rete delle autorità di concorrenza ha consentito di sviluppare – ha sottolineato Rustichelli – sarà importante anche per affrontare le sfide regolatorie poste dall’intelligenza artificiale, innovazione potenzialmente dirompente non solo sotto il profilo economico, ma anche sociale e democratico. Non ho dubbi che le competenze maturate dall’Autorità attraverso i numerosi interventi a tutela della concorrenza e del consumatore nel settore digitale potranno contribuire anche alla governance economica di questa nuova frontiera della modernità”.
Quando la legge confonde visitatori e clienti: il caso Zalando
La poca chiarezza, e spesso anche competenza, che ancora c’è attorno al mondo digitale ha indotto Zalando, il più grande rivenditore di prodotti di abbigliamento online d’Europa, a citare in giudizio, presso la Corte di giustizia dell’Unione Europea, la Commissione Europea per averla inserita nella medesima categoria di Google e Meta. In base al Digital Services Act (DSA) entrato in vigore l’anno scorso, Zalando è stata infatti considerata una piattaforma online di grandi dimensioni (VLOP) perché ha più di 45 milioni di utenti e quindi è stata valutata alla stessa stregua di Alphabet, Facebook, Microsoft, Twitter o AliExpress.
Zalando sostiene che questa catalogazione non è corretta perché la metodologia usata dalla Commissione nel computo ha incluso anche le vendite retail che costituiscono il 64% del globale. Zalando afferma di avere mensilmente 31 milioni di utenti attivi, un numero ben lontano dai 45 milioni di utenti che le sono attribuiti e che comunque dovrebbero essere considerati visitatori e non utenti registrati.
Inoltre, non è stato tenuto conto del fatto che non presenta un rischio sistemico di diffusione di contenuti dannosi o illegali da parte di terzi.
La riposta della Commissione
In tutta risposta, il Commissario europeo Thierry Breton ha precisato in un comunicato che la DSA contrasta anche l’ingresso di prodotti illegali o non sicuri nel mercato dell’UE, protegge i bambini dall’acquisto di prodotti non adatti all’età o non sicuri e rimuove la merce contraffatta dalle piattaforme di e-commerce. Breton incoraggia “tutte le piattaforme a non considerare il rispetto del DSA come una punizione, ma un’opportunità per rafforzare il valore del proprio marchio e la reputazione di sito affidabile”.
La Commissione europea ha fatto sapere che difenderà la sua posizione in tribunale. Il rischio è che altre aziende possano seguire la stessa strada intrapresa da Zalando.
Qualunque sia la sua evoluzione, il caso Zalando è la dimostrazione di quanto bisogno ci sia di una legislazione precisa fatta con competenza, che consenta di gestire in modo davvero puntuale e preciso i dati.
Un discorso analogo vale per l’emendamento approvato in Irlanda e la riproposta della global minimun tax: c’è ancora da lavorare per avere nei confronti delle Big Tech una posizione coerente ed equa a livello continentale.