Le novità del Red Hat Summit e un elefante nella stanza (la licenza RHEL)
In un mondo in cui le applicazioni sono sempre più distribuite dall’Edge al cloud, passando per data center e cloud ibrido, le aziende hanno bisogno di semplificare la gestione dello stack infrastrutturale, e cercano un unica piattaforma che possa garantire semplicità di gestione, affidabilità e sicurezza per lo sviluppo e l’erogazione di applicazioni che devono poter essere eseguite su tutti questi ambienti.
Per Red Hat, questo strumento si chiama OpenShift, la piattaforma per applicazioni cloud fortemente basata su Kubernetes che sta prendendo sempre più piede. “Più della metà delle applicazioni cloud italiane gira su OpenShift, incluse molte di quelle in ambito sanitario che durante la pandemia hanno fornito servizi essenziali”, ha affermato il Country Manager di Red Hat Italy Rodolfo Falcone in un incontro con la stampa incentrato sulle novità presentate durante il Red Hat Summit che si è tenuto a fine maggio a Boston, negli USA.
Falcone ha anche sottolineato come in questo momento sia la pubblica amministrazione a trainare il mercato IT, grazie soprattutto alle risorse provenienti dal PNRR e impiegate negli obiettivi di transizione digitale ed ecologica.
La crescita di OpenShift e di Red Hat nel suo complesso non è un fenomeno solo italiano, tant’è che Red Hat ha dato un contribuito determinante sui ricavi di IBM. Nel secondo trimestre, la divisione software ha visto i segmenti Red Hat, dati e AI crescere dell’11%, automazione del 2% mentre la voce security è calata dell’1%.
IA generativa e automazione per gestire l’infrastruttura
Oltre a occuparsi di fornire le fondamenta tecnologiche per chi sviluppa modelli di IA, attraverso OpenShift AI, distribuzione ottimizzata per le applicazioni di training ed erogazione dei modelli, Red Hat sta introducendo la IA – in particolar modo la IA generativa – anche all’interno dei suoi prodotti.
Ansible Lightspeed è un nuovo servizio che, attraverso il Code Assistant di IBM Watson, traduce richieste degli operatori fatte in linguaggio naturale in codice di automazione che può essere eseguito come Playbook Ansible.
“Stiamo andando sempre più verso la Infrastructure as code, ma i sistemisti tradizionali non sono sviluppatori. Con questo strumento aiutiamo i sistemisti a gestire l’infrastruttura di domani”, ha dichiarato Giorgio Galli, Head of Presales di Red Hat Italy.
Altra novità nel campo dell’automazione è Event-Driven Ansible, che raccoglie eventi e li confronta con un motore di regole per offrire servizi di automazione in modo proattivo, spingendosi fino a prendere decisioni ed eseguire i comandi.
Avvicinare le operations agli sviluppatori
L’infrastruttura è sempre più vista come codice, dicevamo, ma anche il codice deve essere sviluppato in modo da potersi avvantaggiare delle architetture moderne, abbracciando l’approccio DevOps. Anche per chi si occupa di infrastruttura, quindi, diventa quindi sempre più importante coinvolgere gli sviluppatori e Red Hat lo sta facendo attraverso diversi strumenti.
Ecco quindi il Red Hat Developer Hub, che fornisce un unico punto in cui accentrare codice, documentazione, strumenti self-service e best practice per facilitare sia l’onboarding di nuovi sviluppatori, sia la produttività di quelli già navigati, si integra con plugin a Backstage.io, la piattaforma aperta per la creazione di portali per sviluppatori per creare un ambiente di sviluppo semplificato.
Red Hat Service Interconnect, basato sulla piattaforma open Skupper.io, permette poi di connettere in modo semplificato le applicazioni tra diverse piattaforme, cluster o cloud con tecnologie differenti, mantenendo un elevato livello di sicurezza.
L’elefante nella stanza: la nuova licenza di Enterprise Linux
Quel che al Summit non è stato discusso, perché annunciato solo un mese dopo, è il radicale cambiamento introdotto da Red Hat nella licenza del suo Enterprise Linux. Con una mossa che ha stupito tanto la comunità open source, quanto le aziende che operano nel settore, Red Hat ha infatti annunciato che la distribuzione dei sorgenti di Red Hat Enterprise Linux (RHEL) sarà limitata ai soli clienti, che non potranno però condividerli con terzi. Clausole che, secondo alcuni, violano la licenza open source GPL 3. Se sia davvero così, lo stabilirà probabilmente un tribunale, ma questo cambiamento sicuramente rappresenta uno strappo verso la filosofia open source che l’azienda ha adottato e praticato fin dalla sua fondazione trent’anni fa.
L’incontro di Milano è stato quindi l’occasione per discutere con il management Red Hat del tema. Secondo Gianni Anguilletti, Vice-President della regione Mediterraneo di Red Hat, “i contraccolpi nella community, non inattesi, sono dovuti soprattutto alla mala informazione e interpretazione rispetto alla decisione presa da RedHat, che non ha compiuto alcun atto che leda i diritti dei clienti o utilizzatori di software open source, e non riduce l’impegno dell’azienda nell’open source”.
Giorgio Galli è entrato più in dettaglio precisando che Red Hat continua a pubblicare i sorgenti delle patch verso i repository di Fedora e CentOS, quest’ultimo da tempo spostato – come si dice – upstream rispetto alla catena di sviluppo. “CentOS Stream ha un ritmo di aggiornamento più veloce di RHEL, è lì che portiamo l’innovazione, così come fanno altri contributor importanti come gli hardware e software vendor, anche in fase di sperimentazione. Le componenti ritenute stabili entrano poi nella distribuzione RHEL, e a quel punto i sorgenti sono disponibili solo a chi acquisisce la licenza”.
“Quello che alcune aziende non possono più fare è prendere la nostra release, ricompilarla, fare una distribuzione a proprio nome e poi attendere nuovamente le nostre fix prima di rilasciare un aggiornamento”.
Tradotto, Red Hat utilizza CentOS e Fedora come versioni beta e sperimentali, ma trasforma la RHEL nel capolinea della catena open source. Da lì, i sorgenti possono solo tornare indietro verso CentOS e Fedora sotto forma di fix, ma vengono impediti ulteriori sviluppi o distribuzioni open a valle della versione stabile ed “enterprise grade”.
Galli non menziona le aziende che finora hanno solo ricompilato RHEL, ma è chiaro che si riferisca ad AlmaLinux, Rocky Linux e Oracle, che utilizza sui propri sistemi e cloud l’Oracle Enteprise Linux in due versioni: una di fatto identica a RHEL tranne i loghi, l’altra basata sull’Unbreakable Enterprise Kernel. Oracle rende inoltre disponibile liberamente OEL affinché i propri clienti li utilizzino sulla OCI o altrove. Invece di sottoscrivere una licenza RHEL, come spererebbe Red Hat.
La frustrazione di Red Hat, che da decenni è tra i principali contributor dell’open source, è comprensibile. L’azienda investe tantissime risorse nello sviluppo di software open e contribuisce a centinaia di progetti terzi. E investe altrettanto nel trasformare queste centinaia di pacchetti in una distro solida, con carartteristiche enterprise e ben supportata.
Vedere che un’altra azienda – magari multinazionale – appiccica il proprio logo sul frutto di questo lavoro, non è simpatico.
Ma è l’open source, bellezza.