Google condannata per monopolio nella pubblicità online: si va verso la possibile cessione delle attività ad tech

Un nuovo e significativo colpo per Google sul fronte legale arriva da una sentenza emessa dal tribunale distrettuale della Virginia, dove la giudice Leonie Brinkema ha stabilito che l’azienda di Mountain View ha violato le leggi antitrust statunitensi mantenendo e rafforzando illegalmente il proprio monopolio su due mercati fondamentali per la pubblicità digitale: quello dei server per publisher e quello delle ad exchange, le piattaforme che mettono in contatto chi vende e chi acquista spazi pubblicitari sul web.
Questa decisione apre la strada a possibili rimedi strutturali nei confronti di Google, inclusa la possibilità di costringerla a vendere parte delle sue attività nel settore ad tech. La sentenza segue di pochi mesi un’altra condanna simile che ha stabilito l’abuso di posizione dominante da parte del colosso californiano nel mercato della ricerca online, dimostrando come l’azienda sia sempre più sotto pressione sia negli Stati Uniti, sia in Europa per il suo comportamento monopolistico.
Secondo la giudice Brinkema, Google non solo ha impedito ai concorrenti di accedere equamente al mercato, ma ha anche danneggiato i propri clienti (in questo caso gli editori) e, di conseguenza, i consumatori finali che fruiscono di contenuti online. L’esclusione sistematica dei rivali, scrive la giudice nella sentenza, ha avuto effetti profondamente negativi sull’intero ecosistema del web aperto.
La giudice ha però respinto una parte delle accuse. In particolare, non ha ritenuto dimostrabile il fatto che Google detenga un monopolio anche sul mercato delle reti pubblicitarie per inserzionisti, limitando dunque il perimetro della condanna ai soli strumenti per publisher e ad exchange.
La sentenza rappresenta un successo importante per il Dipartimento di Giustizia americano (DOJ), che negli ultimi anni ha intensificato le sue azioni contro le pratiche monopolistiche dei grandi colossi tecnologici, spesso accusati di soffocare la concorrenza attraverso acquisizioni aggressive, imposizioni contrattuali e politiche commerciali escludenti. La procuratrice generale Pamela Bondi ha definito la decisione “una vittoria storica nella battaglia per impedire a Google di monopolizzare lo spazio pubblico digitale” e ha ribadito l’impegno del governo nel tutelare la libera concorrenza e la libertà d’espressione online.
Google, dal canto suo, ha già annunciato che farà ricorso contro la sentenza. Lee-Anne Mulholland, vicepresidente per gli affari regolatori di Google, ha precisato che l’azienda ha “vinto metà del caso” e intende appellarsi per il resto, sostenendo che i publisher scelgono volontariamente le soluzioni Google per la loro efficacia, semplicità e convenienza. Tuttavia, la notizia ha avuto un impatto immediato sul titolo azionario di Alphabet, la holding cui fa capo Google, che ha registrato un calo dell’1,4% subito dopo l’annuncio.
Secondo gli esperti, l’impatto finanziario immediato per Google potrebbe essere limitato, ma la sentenza rappresenta un vero e proprio punto di svolta per l’intero settore tecnologico. Michael Ashley Schulman, chief investment officer della società Running Point Capital, ha definito la decisione una svolta cruciale, capace di cambiare l’approccio dei tribunali americani verso rimedi più radicali nei casi antitrust, come lo smembramento di aziende o la forzata vendita di asset strategici. Questo scenario, secondo Schulman, potrebbe aumentare il rischio regolatorio per altri giganti tech come Amazon, Meta e Apple, tutte realtà attualmente sotto indagine o già coinvolte in cause antitrust.
La sentenza ha anche ricevuto il plauso di esponenti politici come la senatrice democratica Amy Klobuchar, da sempre attenta ai temi della concorrenza nel digitale, che ha definito la decisione “una grande vittoria per i consumatori, le piccole imprese e i creatori di contenuti” perché potrebbe contribuire a rendere i mercati digitali più aperti e a ridurre i prezzi.
Google ora si trova quindi di fronte a un nodo per nulla semplice da sbrogliare. Da una parte l’azienda rischia di dover cedere parte delle sue attività ad tech per ripristinare condizioni di concorrenza leale, mentre dall’altra potrebbe dover rivedere profondamente il proprio modello di business proprio mentre si trova impegnata in un altro processo, questa volta a Washington, dove il Dipartimento di Giustizia chiede interventi simili per limitare il predominio dell’azienda nel mercato della ricerca online e dei browser, tra cui la possibile vendita di Chrome.
(Immagine di apertura: Shutterstock)