2016 anno nero per la libertà su Internet
L’ONG statunitense Freedom House ha rilasciato la nuova edizione del suo rapporto annuale Freedom on the Net, che va ad analizzare il grado di libertà su Internet a livello globale.
2016 anno nero per la libertà su Internet
L’anno in corso, stando al rapporto, ha visto un’ulteriore libertà di espressione su questo versante, che ha colpito non solo i social (soprattutto Facebook e Twitter), ma anche WhatsApp e Telegram, sempre più nel mirino di quei regimi autoritari che vogliono reprimere anche le libertà su Internet da noi considerate più elementari, come un semplice Like su Facebook o un retweet.
L’entrata sulla scena negli ultimi anni delle app di messaggistica istantanea, per di più con crittografia end-to-end, ha infatti spinto alcuni governi a considerarle come una minaccia forse ancora più grave di quella rappresentata dai social, proprio perché servizi come WhatsApp e Telegram sono in grado di diffondere le informazioni in modo veloce e sicuro.
Da giugno 2015 la libertà su Internet è peggiorata in 34 del 65 Paesi presi in esame dal rapporto. Ciò è avvenuto soprattutto in Uganda, Bangladesh, Cambogia, Ecuador e Libia, mentre la libertà in rete è cresciuta in Sri Lanka e Zambia e negli Stati Uniti, dove è stata approvata una legge che vieta la raccolta di metadati delle telecomunicazioni.
La Cina è in testa alla classifica
Il dato forse più preoccupante uscito dal rapporto è che il 67% di chi ha accesso online vive in un Paese in cui le critiche al governo, all’esercito o ad altre istituzioni sono soggette a censura, tanto che rispetto ai 15 Paesi dello scorso anno, nel 2016 sono state 24 le nazioni i cui governi hanno bloccato o limitato l’accesso ai social media o a strumenti di comunicazione.
Anche alcuni governi democratici (12 quelli riportato dal report) hanno messo in campo qualche forma di restrizione nell’utilizzo delle applicazioni con crittografia end-to-end perché ritenute una minaccia alla sicurezza nazionale.
“Se il blocco di questi strumenti tocca tutti, ha un impatto particolarmente dannoso sui difensori dei diritti umani, sui giornalisti e sulle comunità marginalizzate, che spesso dipendono da queste app per bypassare il controllo dello Stato” ha dichiarato Sanja Kelly, responsabile dello studio.
Per il secondo anno consecutivo il Paese peggiore si riconferma la Cina, dove tra l’altro una recente legge punisce con il carcere fino a sette anni chi diffonde voci sui social media, un’accusa solitamente usata per incarcerare gli oppositori; il Paese asiatico è seguito nella classifica da Siria e Iran.
Da segnalare infine che le autorità di 38 Paesi hanno eseguito arresti legati a post sui social media lo scorso anno, con un aumento del 50% dal 2013. In alcuni Paesi ci sono state condanne a oltre dieci anni di carcere.