I leader aziendali devono affrontare nuove sfide dentro e fuori l’organizzazione: agilità, scalabilità e misurazione delle prestazioni sono le parole chiave del momento. Nella sola Europa sono stati spesi negli ultimi anni 200 miliardi di euro in programmi di digital transformation, e le aziende vogliono vedere un ritorno di questi investimenti.

Sono queste alcune delle tematiche che emergono dalla global survey condotta da Longitude per conto di Workday sul tema della digital transformation. La survey è stata condotta su 998 senior business leaders e C-Suite di aziende in Nord America, Europa e Asia ed è stata presentata a Milano da Pierre Gousset Vice President Preseles Emea di Workday.

La maggioranza dei leader aziendali che hanno risposto al sondaggio riconosce che per il proprio successo a lungo termine è importante guidare il processo di trasformazione digitale del business. La creazione di nuovi prodotti e servizi abilitati dal digitale è una chiave per il cambiamento nelle organizzazioni. Il 56% di dirigenti pensa che nei prossimi tre anni più della metà delle revenue arriveranno da questi nuovi prodotti e servizi. Di questi, però, solo il 25% hanno fatto progressi significativi in questo senso.

Digitale: tra opportunità e sfide

Pierre Gousset, VP Preseles EMEA di Workday.

Pierre Gousset, VP Preseles EMEA di Workday.

Per Gousset, “agli inizi della digital transformation, molte aziende hanno cominciato a creare degli innovation lab, strutture separate e specializzate spesso interne o contigue alla funzione IT. Questo è un approccio valido per una fase sperimentale, ma non può scalare senza il coinvolgimento dell’intera organizzazione”. L’intera aziende deve trasformarsi per abbracciare i nuovi paradigmi del digitale: agilità, velocità, rapida adattabilità”.

Tra le funzioni che, trasformandosi, possono dare il maggiore supporto a un progetto di digital transformation, gli intervistati identificano accanto all’IT anche il Finance e le risorse umane: entrambe le funzioni devono riuscire ad adattare velocemente e continuamente le proprie pianificazioni per assicurare le risorse economiche e le competenze necessarie a rendere la crescita scalabile.

Tra i principali ostacoli alla crescita digitale vengono identificate la cybersecurity, con le preoccupazioni relative alla privacy e alla compliance (42%), le limitazioni imposte da una infrastruttura IT legacy (34%) e tra i fattori umani una mentalità aziendale che preferisce evitare l’assunzione di rischi e responsabilità (29%).

La chiave per la trasformazione: agilità organizzativa

Per McKinsey, citato da Gousset, in campo aziendale l’agilità è “la capacità dell’organizzazione di rinnovare se stessa, adattarsi, cambiare velocemente e avere successo in un ambiente in rapido e turbolento cambiamento”.

Come si declina tutto ciò nell’era del digitale? Quali sono per gli intervistati le capacità fondamentali e gli attributi delle organizzazioni agili?

  • Una pianficazione continua e reattiva
    Report e pianificazioni trimestrali non sono più adeguati a guidare processi che possono trasformarsi radicalmente in quel lasso di tempo.
  • Organizzazione adattabile
    Processi e strutture aziendali devono diventare più fluidi per adattarsi alle necessità, ma senza che il coordinamento centrale perda visibilità su ciò che sta accadendo.
  • Gestione delle competenze e dei talenti
    Nell’accaparrarsi i talenti, le aziende oggi sono in competizione con le startup e le tech-company native digitali. La capacità di individuare gli skill e pianificare dinamicamente la loro necessità con tre-quattro trimestri in anticipo è una chiave fondamentale per muoversi in questo campo.
  • Un processo decisionale informato, delegato e abilitato
    Le persone devono disporre di tutti i dati per misurare i propri progressi, all’interno dell’organizzazione e  rispetto alla concorrenza. È necessaria una “devolution” del processo decisionale.
  • Tenere fermo il controllo
    È necessario sviluppare nuovi set di strumenti e metriche per misurare le prestazioni, e monitorarle costantemente. Le aziende che ottengono i migliori risultati sono anche quelle che sanno dimostrare più facilmente i propri progressi.

Lo spaccato sulle aziende italiane

Anche in Italia, la maggior parte degli intervistati pensa che nei prossimi tre anni una porzione rilevante dei ricavi arriverà dai nuovi revenue stream fondati sul digitale (84%), e addirittura l’88% ritiene che in azienda la strategia digitale sia chiaramente definita e condivisa. I sono generalmente CIO più ottimistici di altri nelle capacità dell’azienda di reagire velocemente ai cambiamenti e riallocare le risorse, mentre i CFO sono più conservativi.

Si tratta in ogni caso di autovalutazioni, in cui gli intervistati possono essere stati un po’ indulgenti con sé stessi. Un dato su tutti: il 76% degli intervistati ritiene di essere più veloce della concorrenza nell’individuare nuove opportunità digitali. Si tratta in ogni caso di un’attestazione di forte interesse per la tematica.

Tra i fattori che frenano la trasformazione digitale, oltre ai tre fattori presenti globalmente (security, IT legacy e skill), i manager italiani evidenziano anche una cultura aziendale eccessivamente burocratica e gerarchica.

Il digitale che non ti aspetti

Se rispetto a USA e Asia, in Europa scarseggiano le aziende tech “digital native” di dimensioni globali, l’innovazione digitale applicata a prodotti tradizionali sta generando esempi eccellenti, anche in Italia. È il caso di Prysmian, azienda nata nel 2005 dallo spin-off di Pirelli Cavi, è tra i principali produttori mondiali di cavi elettrici di potenza, anche sottomarini, e fibre ottiche. Il tipo di prodotto (hardware finora “stupido”) e la clientela prettamente B2B, sembrerebbero molto lontani da possibili sviluppi in ambito digital. Invece, una forte determinazione del CdA in questo senso, e un CIO/Chief Digital Officer creativo e aperto alle sperimentazioni, stanno introducendo innovazioni che per ora si “limitano” a migliorare il prodotto, aggiungendo sensori e marcatori digitali, ma in futuro daranno origine a nuove fonti di revenue digitali.

Al CDO di Prysmian Stefano Brandinali, intervenuto all’evento, piace parlare di “ambizione digitale”, invece che di trasformazione, sostantivo che evidenzia come si tratti di un processo attivo, che dipende dalle persone, e non di qualcosa che semplicemente “accade”. E l’ambizione di Prysmian per il 2030 è quella di trasformarsi da produttore di cavi a fornitore di soluzioni, integrando ai propri prodotti un layer software proprietario. “Per questo, è necessario investire in tecnologia e cultura, per supportare un nuovo tipo di leadership di mercato”, dice Brandinali, che prosegue: “Gli ERP ci hanno insegnato a “pettinare” le nostre aziende strutturandole per processi organizzati in base alle best practices riconosciute. Oggi però vogliamo fare le next practices. Non c’è bisogno di aggiungere molti nuovi sensori alle nostre aziende: di dati ne abbiamo già tanti. abbiamo bisogno di nuovi modi per interpretarli ed estrarne valore”.

Il successo nel digitale appartiene alle aziende agili

Mariano Corso, direttore scientifico dell’Osservatorio HR del Politecnico di Milano.

Mariano Corso, direttore scientifico dell’Osservatorio HR del Politecnico di Milano.

Commentando i dati della ricerca Longitude, e incrociandoli con quelli dell’Osservatorio HR Innovation Practice e Assochange 2019 del Politecnico di Milano, il prof. Mariano Corso – direttore scientifico dell’Osservatorio HR, ha evidenziato che – sebbene le aziende stiano finalmente dando all’innovazione una maggiore priorità, aumentando i budget stanziati – questo potrebbe non bastare. Metà dei progetti di innovazione digitale falliscono, perché le persone e soprattutto le aziende, non riescono a tenere il passo con l’evoluzione tecnologica.

Servono una capacità di pianificare in tempo reale, superando la rigidità delle infrastrutture tecnologiche e una maggiore condivisione e aggiornamento delle informazioni e dei dati interni. La burocrazia (definita da Corso una “intrinseca carenza dei leader, che si trincerano dietro la procedura”), impedisce un vero engagement delle persone, fattore che più di tutti fa la differenza nel successo dei progetti.