La Federal Trade Commission americana (FTC) ha intentato una causa federale contro Adobe, accusando l’azienda tech e due dei suoi dirigenti (Maninder Sawhney, SVP di Digital Go To Market & Sales, e David Wadhwani, presidente di Digital Media Business) di aver ingannato i consumatori nascondendo le commissioni di recesso per il software in abbonamento.

La denuncia, presentata dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti lunedì e resa pubblica in forma censurata, sostiene che “Adobe non rivela adeguatamente ai consumatori che, iscrivendosi al piano di abbonamento Annuale, Pagamento Mensile (piano APM), accettano un impegno di un anno e un’ingente commissione di recesso anticipato (ETF) che può ammontare a centinaia di dollari”.

Adobe avrebbe insomma imposto costi inaspettati se i sottoscrittori avessero semplicemente cancellato un piano di pagamento mensile prima della fine dell’anno.

Le pratiche della società, si legge sempre nel dispositivo di accusa, hanno intrappolato i creativi in abbonamenti che non desideravano più violando il Restore Online Shoppers’ Confidence Act, la legislazione sul commercio elettronico promulgata alla fine del 2010 che limita l’uso di “funzioni di opzione negativa” (interpretare l’inazione del consumatore come consenso) e le vendite da parte di un terzo che ha ottenuto i dati del cliente immediatamente dopo una transazione con un altro venditore.

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La denuncia sostiene inoltre che Adobe nasconde i termini del suo piano APM utilizzando testi piccoli e dietro elementi dell’interfaccia “progettati per passare inosservati”, con in più l’accusa che Adobe scoraggerebbe le cancellazioni degli abbonamenti attraverso processi inutilmente complicati.

L’azione portata avanti dalla FTC non è comunque del tutto inaspettata. Almeno dal giugno 2022, infatti, Adobe era consapevole di poter essere trascinata in tribunale per le sue pratiche commerciali e, a fine 2023, ha avvertito che avrebbe potuto affrontare sanzioni significative proprio a causa dell’indagine della FTC sulle sue politiche di cancellazione degli abbonamenti.

I guai per Adobe non sono però finiti.

In questi giorni, l’azienda guidata da Shantanu Narayen ha iniziato a inviare alcune email agli utenti delle versioni non più supportate (quelle con licenza perpetua) di Lightroom Classic, Photoshop, Premiere, Animate e Media Director, avvertendoli che non erano più legalmente autorizzati ad utilizzare il software che credevano di possedere.

“Siate consapevoli che se continuate ad utilizzare queste versioni, potreste essere a rischio di potenziali reclami di violazione da parte di terzi”, si legge nella email inviata da Adobe a questi utenti, che ovviamente hanno accolto con scarso entusiasmo le improvvise restrizioni. Questo è infatti l’ennesimo esempio di come oggi i prodotti che acquistiamo possano perdere funzionalità o smettere di funzionare all’improvviso. 

Adobe non ha informato gli utenti sul motivo della necessità di interrompere l’uso di questi software, ma il suo account Twitter ha indicato che il problema deriva da “contenziosi in corso” e AppleInsider ha fatto riferimento a una causa dello scorso anno per violazione del copyright intentata contro Adobe da Dolby Labs.

adobe

Nel 2013 Adobe aveva abbandonato il modello software standard a favore di quello basato su abbonamento cloud, con un aumento significativo dei ricavi (e dei prezzi per i clienti). La causa di Dolby Labs accusa Adobe di violazioni del copyright relative a come i costi di licenza pagati ad Adobe sarebbero stati calcolati con questo nuovo modello.

Secondo Dylan Gilbert, esperto di copyright del gruppo consumatori Public Knowledge, in questo caso gli utenti non hanno molte vie legali percorribili contro questo improvviso cambiamento. “A meno che Adobe non abbia violato i termini del suo accordo di licenza con questa improvvisa interruzione del supporto per una versione software precedente (cosa improbabile), gli utenti colpiti da queste improvvise restrizioni non possono fare altro che accettare, ha detto Gilbert.

L’attivista, autore ed esperto di copyright Cory Doctorow concorda, affermando che questo tipo di approccio si è sempre più diffuso in innumerevoli settori, inclusi i media con DRM, il software as a service e persino i videogiochi client-server. Sia Doctorow che Gilbert hanno notato che questo panorama in evoluzione può essere particolarmente problematico per artisti e creativi, che spesso non vogliono rischiare progetti in corso passando improvvisamente a nuove versioni di software che potrebbero contenere bug imprevisti.

“I nostri diritti legali sono probabilmente definiti da un contratto che abbiamo accettato milioni di anni fa, secondo cui acconsentiamo a non avere alcun diritto legale quando si presentano spiacevoli situazioni come questa di Adobe”, continua Doctorow. Un accordo sbilanciato che, secondo gli esperti di copyright, non cambierà presto, lasciando ai consumatori una sola vera opzione: quando possibile, non acquistare prodotti da aziende che hanno la cattiva abitudine di comportarsi in questo modo.