Cinque pilastri per cambiare la sanità italiana in tre anni
È stato presentato alla Camera dei Deputati “2024-2027 – il triennio che può cambiare la sanità“, un libro bianco redatto da Fare Sanità, che si definisce un ecosistema di confronto tra governance, società scientifiche, aziende, professionisti sanitari, manager pubblici e rappresentanti dell’ospedalità privata.
“In molti penseranno “l’ennesimo pamphlet di proposte irrealizzabili”, ma questo documento è diverso da molti altri, […] è scritto dalle singole parti in causa che, ognuna per la propria competenza, racconta il proprio punto di vista su un modello di sanità sostenibile anche per il futuro”, si legge nell’introduzione.
“Lo scopo di questo documento è di dare avvio a una discussione con il pubblico, le parti interessate, il Parlamento e gli organi di Governo al fine di approdare a un consenso politico sulle azioni per la sostenibilità del SSN”.
Questo libro bianco, ha spiegato Enzo Chilelli, co-autore e coordinatore scientifico della rete ‘Fare Sanità’, rappresenta il contributo degli stakeholders a supporto delle istituzioni e racchiude i loro auspici per la XIX legislatura.
“Il triennio che abbiamo di fronte può essere, infatti, uno spartiacque per il mondo della sanità in Italia: il giro di boa in cui il nostro Servizio sanitario nazionale riesce a cambiare per rimanere se stesso, risolvendo i nodi critici sui quali risorse, energie ed innovazioni continuano a essere sprecate“.
Non l’ennesimo cahiers de doléance, quindi, ma un contributo per indicare cosa è fare. Per questo sono stati individuati cinque pilastri sui quali devono basarsi le iniziative per la sanità del futuro.
Cinque pilastri, dalla sostenibilità finanziaria alle tecnologie
Sostenibilità finanziaria, governance, persone, dati, e tecnologie sono i pilastri che si traducono per quanto riguarda il primo punto nella sicurezza e gestione del rischio, nella necessità da parte della politica di vedere nella sanità un motore di sviluppo e nella cultura no blame che si traduce in un approccio non punitivo verso il medico. Tradotto: 132.000 cause nel 2023 che durano anni.
Il secondo punto è quello della governance ed è forse uno dei più difficili vista la frammentazione delle sanità regionali. Poi ci sono le persone che devono essere valorizzate, formate, dotate di stipendi adeguati e i pazienti che devono avere voce in capitolo nei percorsi di cura.
Con i dati si scende sul terreno della tecnologia. Si tratta di elementi fondamentali che servono per la misurazione delle prestazioni, riduzione degli sprechi e l’individuazione di strategie che hanno un impatto positivo per lo sviluppo e l’innovazione del sistema.
In ultimo le tecnologie, la cui integrazione efficace e diffusa dipende in buona parte dal raggiungimento dei traguardi precedenti.
Interoperabilità: una parola bellissima, ma…
Enzo Chilelli per quanto riguarda i dati ha chiarito di avere un punto di vista “centralista”. Facendo l’esempio di Inps, Motorizzazione e Agenzia delle entrate, ha spiegato “Se noi diversifichiamo con 21 sistemi informativi diversi poi faremo fatica metterli a sistema”.
L’interoperabilità, ha proseguito, è una parola bellissima ma se i dati non sono uguali poi si fa molta fatica a gestirli. E per quanto riguarda la tecnologia non è questo il cuore del problema che risiede invece nella organizzazione. Sempre Chilelli ha riproposto il tema della privacy che rimbalza da convegno in convegno. “Non bisogna – ha affermato – chiedere il consenso per prestazioni non invasive e che ha chiesto il paziente. Dal 2019 non dovrebbe essere chiesto il consenso”, ma succede.
Favorevole all’approccio macro è Giovanni Gorgoni, già direttore generale AReSS Puglia. “Sul rapporto fra Stato, Regioni e Comuni nella sanità – ha affermato – si tratta di stabilire un bilanciamento di compiti e di ruoli fra macro, meso e microlivello. Sicuramente, al macro livello dell’Unione Europea e dello Stato si deve conservare progettazione, monitoraggio e qualificazione delle reti patologiche. Anche il governo dei dati sanitari è una questione che deve rimanere a livello macro, a livello statale, così come i temi di alcune missioni speciali, in chiave europea, come cancro, salute mentale, preparazione pandemica, strategia farmaceutica, in particolare i farmaci innovativi e poi ancora i dati sanitari”.
Il problema della Piattaforma nazionale di telemedicina
Altra questione riguarda la cartella clinica digitale che nel 2024 non è ancora obbligatoria ed è un problema “perché il dato deve essere digitale”. Chilelli ha ricordato poi la partenza della Piattaforma nazionale di telemedicina sulla quale però al momento “non circola ancora un dato” nonostante costi 2,4 milioni al mese.
I dati non ci sono “perché non sappiamo le apparecchiature che ci vanno e mancano le linee guida”. E sulle spese ingenti che in questo momento vanno verso l’informatizzazione sottolinea come ci sia il rischio che non vadano a buon fine. Per questo è necessario coinvolgere le aziende, spesso multinazionali, che devono essere corresponsabili in questi progetti.
Giorgio Casati, direttore generale Asl Roma 2, ha spiegato come l’arrivo del digitale trasformi completamente il modo di fare sanità sia per quanto riguarda i dati sia per il mutamento del processo produttivo. L’esempio a cui fa ricorso riguarda la telemedicina dove “il paziente avrà bisogno di meno controlli standard durante l’anno” ma di contro aumenta la possibilità e quindi l’obbligo di essere nelle condizioni di intervenire se i dati del telemonitoraggio si fanno preoccupanti.
Standardizzare le condizioni d’ingresso o i risultati?
“Il concetto di remoto avvicina pazienti e medici e quindi le relazioni diventano fondamentali. Questo cambia il modo di fare sanità”. Per fare la sanità digitale – ha proseguito – è però necessario standardizzare le condizioni.
Nell’immaginare lo sviluppo di queste nuove tecnologie c’è il grande patema d’animo dell’omogeinizzazione, della standardizzazione, di avere qualche cosa di uniforme. Quello che però stiamo facendo, aggiunge Casati, è standardizzare e rendere omogenee le condizioni per poter fare medicina digitale.
Ma con la standardizzazione non si ottiene l’omogeneizzazione perché si lavora solo sulle condizioni d’ingresso invece bisogna lavorare sul risultato che deve essere omogeneo, non la condizione d’ingresso. “Se io voglio ottenere qualcosa devo risolvere un problema specifico. Ed è su quello che mi devo concentrare non sulle condizioni che lo determinano; questo aspetto fino a oggi manca. Non ci ha pensato chi ha scritto il Pnrr e il Dm 77″.
“Nel momento in cui noi facciamo la stratificazione sui pazienti con il diabete e identifichiamo i livelli di gravità, se lavoro con i pazienti medi e leggeri ottengo vantaggi perché lavoro molto sul territorio in termini di qualità della vita e riduzione impatto sulla qualità ospedaliera”, continua Casati. “In questo modo ottengo risultati di lungo termine ma se lavoro con i pazienti più gravi ho risultati più immediati, riduco la mortalità ospedaliera ma di conseguenza ho bisogno di altri ospedali perché quelli che ho non sono più sufficienti per ricoverare quelli a cui allungo la vita in ospedale. Stabilire le strategie prima e le priorità dopo per implementare un piano sanitario per la digitalizzazione è un aspetto fondamentale per fare in modo che la trasformazione digitale produca effetti”.
Questo processo di trasformazione però, è stato osservato, non si sta svolgendo in un contesto particolarmente felice con le risorse economiche che difficilmente potranno aumentare senza contare la mancanza dei professionisti per mancanza di pianificazione e le condizioni non attrattive.
La trasformazione digitale deve aggiungere valore quindi permettere di fare di più con quello che abbiamo, e non richiedere risorse aggiuntive. “Se no – ha concluso Casati – è un fallimento. Quindi la trasformazione digitale deve essere un processo graduale, che identifica ambiti di intervento, li razionalizza e poi sviluppa la stessa innovazione in altri ambiti”.