Per la prima volta in Italia è stata impiantata a un settantenne non vedente una retina artificiale di ultima generazione che, al risveglio dopo l’intervento, ha permesso all’uomo di percepire, tramite speciali occhiali, la luce. L’intervento, effettuato dal Direttore della UOC Oculistica della Fondazione Policlinico Gemelli e Ordinario di Clinica Oculistica della Cattolica di Roma, Stanislao Rizzo, è durato due ore.

“La nuova retina artificiale – ha spiegato Rizzo – dovrebbe assicurarci risultati migliori rispetto alle precedenti, essendo dotata di più di 400 elettrodi, molti più dell’Argus che ne possedeva 60. Il paziente operato vede già la luce e questo è davvero incredibile. La retina artificiale per ora è indicata solo per pazienti affetti da retinite pigmentosa (circa 150 mila italiani) negli stadi più avanzati di malattia, cioè persone che hanno perso completamente la vista da entrambi gli occhi, una condizione che interessa circa 1.000-1.500 italiani”.

Dieci anni di ricerche

La retina artificiale Nr600 è stata messa a punto dalla start up Nano Retina, che ha il suo quartier generale a Herzliya, la Silicon Valley israeliana, nei pressi di Tel Aviv. Quello effettuato al Gemelli è il sesto impianto (il primo in Italia) nell’uomo.

Dietro la retina ci sono oltre dieci anni di ricerche. L’impianto, grande come la punta di una matita (5 mm di diametro x 1 mm di spessore), viene posizionato da un esperto in chirurgia retinica sopra la superficie della retina e gli elettrodi tridimensionali dei quali è composto, penetrano tra le cellule retiniche, andando a prendere il posto dei fotorecettori (le cellule specializzate che permettono di vedere) e attivando con i loro impulsi le cellule ganglionari, che trasmettono l’informazione al cervello, facendola viaggiare lungo le vie ottiche.

Per attivare i micro-elettrodi 3D, il paziente deve indossare degli speciali occhiali che inviano al device un raggio infrarosso, che provvede ad alimentarlo, attraverso di un minuscolo impianto fotovoltaico (due cellule fotovoltaiche) di cui è dotato. Il software e l’hardware contenuto negli occhiali controllano e modulano (come attraverso un alfabeto Morse) gli stimoli luminosi che arrivano agli elettrodi, traducendoli in impulsi elettrici che poi veicoleranno, percorrendo le vie ottiche, l’informazione al cervello.

“Nell’ultima fase della retinite pigmentosa – prosegue Stanislao Rizzo –  i fotorecettori (coni e bastoncelli) sono completamente distrutti; ma alcune cellule, come le cellule ganglionari della retina, sopravvivono. Sono cellule importanti perché trasmettono le informazioni dai fotorecettori al cervello. Gli elettrodi 3D sostituiscono i fotorecettori, le cellule specializzate che costituiscono la prima parte delle vie ottiche e trasmettono l’informazione alle cellule ganglionari”.

La forma degli oggetti

L’impianto di questo device ripristina una parta della funzionalità retinica, ma non restituisce la vista. Il paziente può tornare a vedere la luce immediatamente dopo l’impianto ma in genere il programma di riabilitazione viene avviato dopo un paio di settimane dall’intervento. Questo prevede una serie di esercizi da somministrare al paziente che reimpara a vedere attraverso questa sorta di occhio bionico; viene inoltre effettuato il fine-tuning della stimolazione degli elettrodi per ottenere una visione migliore possibile.

Al termine di questo speciale training il paziente riuscirà a distinguere la forma degli oggetti, riconoscere il movimento, imparerà a interpretare queste nuove immagini, che lui vede in bianco e nero e pixelate; grazie alla plasticità neuronale infine il cervello imparerà pian piano a distinguere e a riconoscere questi oggetti.