Grandi Dimissioni: le risorse umane sono sotto pressione
Dopo il blocco del mondo del lavoro a seguito della pandemia, con la ripresa economica e il graduale aumento delle assunzioni, la direzione HR è tornata a concentrarsi sulle tematiche dell’employer branding e dell’attrazione dei talenti, scoprendo però un mercato del lavoro diverso, profondamente mutato.
Per il 44% delle aziende la propria capacità di attrarre candidati è notevolmente diminuita e nel 2021 è proprio questo l’ambito su cui le direzioni HR hanno avuto maggiori criticità. A preoccupare le organizzazioni sono però anche le difficoltà in termini di capacità di motivare, coinvolgere e trattenere le persone già presenti al loro interno.
Nell’ultimo anno il tasso di turnover è aumentato per il 73% delle aziende. Il fenomeno delle Grandi Dimissioni ha interessato anche il nostro Paese: il 45% degli occupati dichiara di aver cambiato lavoro nell’ultimo anno o di avere intenzione di farlo da qui a 18 mesi. Numeri che crescono per i giovani (18-30 anni), per determinati settori (ICT, Servizi e Finance) e per alcuni profili (professionalità digitali). Tra le persone che hanno cambiato lavoro, 4 su 10 lo hanno fatto senza un’altra offerta di lavoro al momento delle dimissioni. Chi cambia lavoro lo fa principalmente per cercare benefici economici (46%), opportunità di carriera (35%), per una maggiore salute fisica o mentale (24%) o per inseguire le proprie passioni personali (18%) o una maggiore flessibilità dell’orario di lavoro (18%).
Sono alcuni dei risultati della ricerca dell’Osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano, presentata nei giorni scorsi durante il convegno Riconquistare le persone ai tempi delle Grandi Dimissioni: alla ricerca dell’equilibrio perduto.
Emergono poi anche altri elementi di malessere sul lavoro. Analizzando tre dimensioni del benessere lavorativo (fisica, sociale e psicologica), solo il 9% degli occupati dichiara di stare bene in tutte e tre. L’aspetto più critico è quello psicologico: 4 su 10 hanno avuto almeno un’assenza nell’ultimo anno per malessere emotivo. Preoccupazioni che si riflettono anche sullo stato fisico, con difficoltà a riposare bene e/o insonnia (55%).
Questo malessere, però, sembra quasi totalmente sconosciuto alle aziende, che solo nel 5% dei casi lo considerano un aspetto problematico. A questo si accompagna una diminuzione del livello di engagement: rispetto al 2021 i lavoratori pienamente “ingaggiati” passano da un già basso 20% ad un preoccupante 14%. E solo il 17% delle persone si sente incluso e valorizzato all’interno dell’organizzazione.
Il mercato del lavoro
Il mercato del lavoro italiano è caratterizzato da una grande richiesta e, allo stesso tempo, da una grande scarsità di competenze in ambito digitale. Una posizione aperta su cinque riguarda proprio professionalità digitali e la quasi totalità delle organizzazioni ha difficoltà ad attrarre e sviluppare le competenze necessarie per affrontare la trasformazione digitale. Anche la riqualificazione della forza lavoro si rivela molto complessa. Nell’arco di 1 o 2 anni il 9% dei dipendenti dovrà essere riallocato perché non ha le competenze adeguate a svolgere il proprio lavoro, percentuale che supera il 15% in oltre 1 organizzazione su 10.
Nonostante questo, i lavoratori hanno una percezione della propria impiegabilità nettamente più positiva rispetto a quella delle organizzazioni. Il 74% dei lavoratori non è preoccupato di rimanere inoccupato per via dell’evoluzione della propria professione. Probabilmente a causa di una scarsa consapevolezza di come evolverà il proprio lavoro e delle capacità che saranno richieste in futuro. Sul fronte delle aziende il tema viene affrontato ancora in modo poco strategico: sono meno del 30% le organizzazioni che mappano le competenze presenti al proprio interno, e ancora meno quelle che cercano di analizzare in modo strutturato le capacità che saranno chiave nel prossimo futuro per definire concrete azioni di sviluppo.
Nell’ambito tech le figure più ricercate sono quelle specializzate nella sicurezza, a seguito della migrazione in digitale di molte attività precedentemente svolte in analogico e della necessità di potenziare la protezione di dati e dispositivi per la crescita degli attacchi informatici durante la pandemia. Seguono, in forte crescita, gli esperti di big data e analytics, per la necessità delle aziende di utilizzare grandi moli di dati per la presa di decisioni.
Gli investimenti digitali nell’HR
Nel 2022 gli investimenti in digitale a supporto delle iniziative HR continuano a crescere (+5%). Il 55% delle organizzazioni dichiara un aumento degli investimenti, mentre il 38% non registra nessuna variazione. I processi in cui si registra l’aumento maggiore sono la formazione, l’onboarding e l’attrazione di nuovi candidati.
La direzione HR italiana è però ancora poco data driven, visto che soltanto il 14% delle organizzazioni ha un approccio maturo alla gestione e all’utilizzo dei dati. Si tratta di realtà che analizzano i dati provenienti dai processi HR attraverso reportistica in real time o predittiva, hanno al loro interno figure che si occupano dell’analisi dei dati e li utilizzano per la presa di decisioni nella maggioranza dei processi.
L’utilizzo della leva tecnologica e dei dati per la presa di decisioni è fondamentale per l’evoluzione della direzione HR, che deve portare l’organizzazione a un modello di lavoro “sostenibile”, che metta al centro il benessere dei lavoratori, l’engagement e l’impiegabilità. Sono questi, infatti, gli aspetti chiave su cui deve basarsi il nuovo ruolo di Connected People Care, un approccio alla gestione del capitale umano sempre più orientato alle esigenze specifiche di ogni persona, capace di far leva sull’utilizzo di nuovi canali di relazione e di strumenti che raccolgono ed elaborano una moltitudine di dati provenienti da diverse fonti.