La leadership adattiva incontra la filosofia di Adriano Olivetti all’OLI di Ivrea
La leadership come capacità di gestire la perdita e favorire l’adattamento. E’ l’idea alla base della leadership adattiva, sviluppata da Marty Linsky e Ronald Heifetz ad Harvard, e che ha trovato casa all’OLI – Adriano Olivetti Leadership Institute di Ivrea. Qui è possibile esercitare la leadership adattiva attraverso corsi esperienziali e attività in gruppi eterogenei dove non si usa mai la parola “leader”, come ci ha spiegato Stefano Zordan, co-fondatore dell’OLI.
Il suo incontro con la leadership adattiva è avvenuto proprio ad Harvard, dove ha partecipato al corso “Exercising leadership. The politics of change” dedicato alla pratica della leadership all’interno di gruppi che affrontano sfide adattive legate al cambiamento. “Con un background di studi in scienze politiche e impegnato in quel momento nella laurea magistrale in etica politica, avevo sempre studiato il cambiamento da un punto di vista storico e teorico. Qui ho trovato invece un framework che mi ha messo in discussione. Il corso è infatti basato sull’agire e raccogliere dati su se stessi e sulle proprie comunità di appartenenza, per poi portarli fuori dall’aula”.
L’approccio della leadership adattiva ha trovato in Italia un dialogo naturale con la filosofia sulle comunità propria del pensiero di Adriano Olivetti, l’imprenditore che aspirava a un equilibrio tra crescita industriale e benessere della persona.
L’OLI – Adriano Olivetti Leadership Institute propone corsi in presenza a Ivrea e altre città italiane, tra le quali Milano e Roma, per la pratica della leadership adattiva. Un approccio che si sta diffondendo e suscita interesse da parte delle aziende. Tra queste c’è Intesa San Paolo, che ha affidato al team dell’OLI il corso finale del suo percorso di formazione International Talent Program.
In questa intervista Stefano Zordan ci ha raccontato l’approccio della leadership adattiva e il suo legame con il pensiero olivettiano.
Quali sono i principi a cui si ispira la leadership adattiva?
Lo sviluppo della leadership adattiva è nato circa 40 anni dall’incontro tra Ronald Heifetz e Marty Linsky alla Harvard Kennedy School of Government, una scuola di pratica professionale per futuri funzionari governativi e politici. Heifetz e Linsky provenivano da background molto diversi, il primo medico psichiatria e violoncellista, il secondo consigliere di politici e politico lui stesso. Non erano accademici, ma professionisti, e unendo le loro competenze scientifiche e politiche – con in più un sottofondo musicale – hanno potuto lavorare in modo inedito nei corsi che tenevano ad Harvard. L’approccio della leadership adattiva nasce dall’osservazione dei gruppi di lavoro: come si relazionano le persone? si danno delle regole? lavorano in plenaria o per sottogruppi? il singolo individuo alza o abbassa la temperatura? qual è l’obiettivo del gruppo?
Osservando i partecipanti ai corsi – prima ad Harvard e poi in aziende e altri contesti – hanno avuto l’intuizione che la teoria dell’evoluzione delle specie di Darwin si potesse applicare ai gruppi umani complessi, composti da tre persone in su, a partire dalla famiglia per arrivare fino a una nazione o alle Nazioni Unite. Interrogandosi sul legame tra leadership e adattamento identificano la leadership come quella forza che, sia nella storia che nella vita quotidiana, serve a favorire l’adattamento.
Come da definizione, l’adattamento è un mix di perdita e di conservazione, è il processo in cui viene messo in discussione il DNA, il patrimonio genetico di una specie (e figurativamente di un gruppo). Esercitare la leadership significa fare esattamente questo: cercare di capire, spesso attraverso un percorso complesso e conflittuale, quali parti di DNA vanno conservate in un gruppo, quali possono, o devono, essere scartate, quali parti di DNA emergenti fuori dall’organizzazione dovrebbero essere captate e portate dentro.
Perdere qualcosa o accettare qualcosa di nuovo può creare resistenza. Come risponde a questo la leadership adattiva?
Praticare la leadership significa riconoscere queste tre parti: il nucleo da conservare, ciò che si può lasciare indietro e il nuovo da inglobare. Quando una persona – che sia un CEO, un volontario, uno stagista, un politico – suggerisce che si potrebbe fare questo lavoro, la risposta tipica è di resistenza perché i gruppi e i singoli individui non vogliono perdere nulla, la vita umana è una corsa continua a limitare il più possibile le perdite.
Secondo l’approccio adattivo il cambiamento è neutro, non è positivo o negativo di per sé. La realtà su cui dovremmo concentrarci è la perdita, ed è questa la moneta di scambio della leadership.
Quando ripensiamo la nostra vita familiare, organizzativa, politica alla luce dell’idea di perdita molti conflitti hanno senso, altri vengono spersonalizzati, si capiscono dinamiche che prima venivano attributi ad antipatie, carattere, ignoranza, stupidità umana.
Quindi, ancor più dei valori, il comune senso della perdita diventa il collante di fazioni e gruppi che si schierano rispetto ad un certo tema, che sia l’introduzione di una nuova tecnologia in azienda o la gestione di un familiare malato.
La realtà su cui dovremmo concentrarci è la perdita, ed è questa la moneta di scambio della leadership
Perché nella vostra proposta non usate la parola “leader”?
Se la definizione di leadership che ne deriva è dunque “gestione della perdita o della paura della perdita”, che comprende sia perdite già subite che potenziali perdite nel futuro, possiamo dire che nessuno fa questo lavoro, spesso faticoso e rischioso, tutto il tempo.
Ecco perché non usiamo la parola “leader”: è un termine che cristallizza questo lavoro in una persona, ma nessuno esercita la leadership su una tema, sempre e costantemente. Preferiamo usare il verbo “esercitare” o “praticare” leadership. La leadership è qualcosa che si fa, non che si ha o che si è.
Cosa distingue l’approccio adattivo ad altri modelli di leadership?
La leadership adattiva è un framework, una cornice che può essere immaginata come un paio di lenti. Possiamo decidere di indossarle quando vogliamo, possiamo andare avanti senza, indossarle e vedere una realtà che ci fa paura, o indossarle per un periodo di tempo.
E qui si delinea la distinzione con altri approcci o modelli che insistono sull’essere o sull’avere, sui tratti della personalità, sulle caratteristiche necessarie per esercitare leadership, sulle competenze che si possono allenare.
Ciò che fa la differenza per noi è il lavoro, inteso proprio nel senso fisico di forza applicata ad un punto. Non importa cosa porti al tavolo; che sia la gentilezza, il public speaking, la gerarchia o la lean organization…tutto questo verrà testato sul lavoro di messa in discussione del DNA del gruppo. Se quello che hai portato al tavolo non viene usato per questo scopo, allora non è servito per l’esercizio della leadership.
Quindi per la leadership adattiva non c’è una leadership positiva o negativa, ci sono solo la leadership o la sua assenza. Poi si può modulare l’intensità con cui si sceglie di esercitarla.
Da questo deriva anche il fatto che leadership e autorità sono due sfere separate, e si aprono tutte le questioni sul merito. Per esempio, cosa vuol dire merito? Una persona viene promossa in un’organizzazione perché sta conservando lo status quo o perché lo sta mettendo in discussione, e quindi esercitando leadership?
Come si sposa l’approccio adattivo con la filosofia di Adriano Olivetti?
La parte olivettiana per noi è fondamentale, per me in particolare che sono di Ivrea. A volte noi italiani siamo scettici verso modelli e proposte che vengono da oltreoceano; è quindi necessario trovare persone ed esempi a noi vicini che richiamino quei modelli.
Adriano Olivetti è uno dei massimi esempi dell’approccio adattivo: la sua idea di “empowerment”, fuori e dentro la fabbrica, era centrata sulla mobilitazione dell’individuo e della comunità al fine di migliorarne le condizioni materiali e spirituali di vita.
La scelta degli spazi dove ci siamo collocati – l’edificio Ex Servizi Sociali, dove c’era la biblioteca Olivetti – ha proprio questo significato. Gli “strumenti di azione culturale e sociale”, ovvero i libri, voluti da Adriano Olivetti testimoniano questa concezione di leadership come mobilitazione propria e degli altri rispetto ai problemi complessi che normalmente i gruppi non vogliono vedere o affrontare.
Come sono strutturati i corsi di leadership adattiva?
I nostri corsi replicano la struttura del corso di Harvard, utilizzando il gruppo in aula sia nello “spacchettamento” di sé che della struttura di cui si è parte. Spesso chi ha più da perdere è meno portato a fare questo lavoro, ma la messa in discussione del DNA del gruppo implica mettere in discussione anche se stessi.
Una caratteristica dei corsi a catalogo è che sono formati da persone diverse, mettono insieme insegnanti, top manager, volontari, medici, pensionati, studenti del liceo. All’inizio i partecipanti si chiedono perplessi cosa hanno da imparare l’uno dall’altro, ma poi scoprono che vedere i propri problemi con gli occhi di un altro è fondamentale e che le sfide adattive a cui tutti siamo chiamati sono simili.
Noi facciamo una grande “pars destruens”, perché purtroppo quasi tutti arrivano ai corsi con preconcetti sulla leadership. Iniziamo rimettendo in discussione il vocabolario sulla leadership, a partire dal termine “leader”.
Quali sono le sfide adattive che dobbiamo affrontare oggi, nella fase post-emergenza?
La pandemia ci ha dato l’opportunità di vedere, in modo molto doloroso, le sfide adattive in tutti gli ambiti della vita, nella sanità, nella scuola, nel rapporto tra casa e lavoro, tra giovani e meno giovani, tra città e territori. Erano tutte sfide adattive latenti, che cercavamo di evitare, ma il Covid le fatte ha fatte emergere in superficie, come un magma.
Adesso, nella fase post emergenziale, la leadership si misurerà come la capacità di ciascuno di far salire a galla questo magma e allo stesso tempo proteggere e proteggersi dalla sua incandescenza. Le due funzioni della leadership sono acquisire e condividere la consapevolezza di queste sfide adattive, esporre e proteggere, mettere le persone nelle condizioni di fare il “lavoro” – nell’accezione detta prima – ma proteggerle quando questo lavoro diventa troppo pesante.