L’ascesa di Namex: “Il baricentro del traffico internet si sposta verso Sud”
Cosa succederebbe se internet si fermasse? Raramente ci poniamo il problema di come funziona un’infrastruttura ormai vitale per i sistemi di comunicazione, la pubblica amministrazione e per praticamente tutti i settori dell’economia. E di quanto siano importanti alcuni componenti della “filiera internet” di cui si parla veramente poco. Per esempio gli Internet Exchange Point (IXP), i punti di interscambio neutrali che nelle principali città collegano tra loro le reti degli ISP (internet service provider) – cioè i fornitori di accesso, ma anche di contenuti, dai film di Netflix ai servizi cloud degli hyperscaler come AWS, Google e Microsoft.
In Italia l’IXP più importante è indiscutibilmente quello di Milano (MIX), ma il secondo – il Namex di Roma – è in grande ascesa: negli ultimi 2 anni ha aperto due IXP regionali a Bari e a Napoli, e ha chiuso il 2022 con forti crescite nelle reti connesse (salite a 209, il 15% in più del 2021), nel traffico (+50%), nelle interconnessioni private (+19%) e nei ricavi (+24%). Abbiamo parlato con Maurizio Goretti, CEO di Namex, del ruolo degli IXP oggi, e in particolare di Namex, degli impatti della crescita dei data center sull’economia italiana, e delle prospettive di sviluppo di internet nel Centro-Sud.
Qual è il ruolo di un IXP oggi?
L’IXP è un pezzo relativamente piccolo e poco conosciuto dell’infrastruttura internet. Si occupa principalmente di far parlare tra loro le reti degli ISP in un punto di interscambio neutrale che consente loro di risparmiare sui costi di connessione e assicura ridondanza e maggior velocità e sicurezza.
Internet è una rete di collegamenti come il sistema stradale o quello aeroportuale: se paragoniamo il traffico internet al traffico aereo, gli IXP sono gli aeroporti, gli ISP sono le linee aeree, e le informazioni sono i passeggeri. Come per il sistema degli aeroporti, gli hub per far viaggiare le informazioni da un qualsiasi punto del mondo a un qualsiasi altro si collocano nelle principali città. In Italia i due IXP principali sono a Milano e a Roma, altri due con un discreto volume di traffico sono a Torino e Padova, e poi ce ne sono altri regionali.
Come è nato Namex?
Namex è nato nel 1995 come NAP Roma, su base volontaria, all’interno di un consorzio universitario, quello che oggi si chiama Cineca. Il consorzio era nato per fornire servizi di calcolo parallelo ad alcune università del centro sud, e aveva sviluppato anche competenze di networking. D’altra parte c’era l’esigenza dei primi ISP commerciali attivi a Roma di collegarsi tra loro senza usare le connessioni internazionali che allora costavano molto.
Da qui l’idea dell’IXP neutrale, che poi nel 2001 è diventato un’entità legale, un consorzio di ISP, e ha assunto il nome Namex, che sta per Nautilus Mediterranean Exchange Point. L’aspirazione infatti era di far diventare Roma l’hub più importante del Mediterraneo, ma presto abbiamo capito che la cosa migliore per Namex era di concentrarsi sul Centro-Sud Italia. Oggi siamo più di 200 soci, con una crescita che ha seguito in parallelo quella di internet.
Quali sono le principali fonti di entrate di Namex?
Le entrate provengono da servizi di public peering tra le reti degli ISP, ma anche dai servizi di co-location nei nostri data center: ne abbiamo tre a Roma, uno a Bari e un POP a Napoli. Noi quindi vendiamo ospitalità – cioè spazio, energia e condizionamento – per gli apparati dei clienti che vogliono estendere qui la loro rete e scambiare traffico con altri.
Nei modelli di business canonici di internet la co-location non è di pertinenza degli IXP, ma degli operatori di data center carrier neutral, cioè senza attività ISP o carrier. Ma a Roma fino a poco tempo fa non c’erano realtà di questo tipo. All’inizio non sembrava importante avere una componente di co-location, poi lo è diventato, e le infrastrutture dei data center sono state adeguate. Qui al centro di Roma, vicino alla Stazione Termini, abbiamo 200 rack, che ospitano apparati e reti di molti operatori che si interconnettono tra loro: ci sono tutti i grandi nomi attivi in Italia.
Oggi però gli operatori di data center neutrali a Roma stanno arrivando…
Sì, le cose stanno cambiando. A Roma in questo momento ci sono 4 grandi progetti. Aruba sarà operativa col primo modulo entro fine anno, Digital Realty inizierà la costruzione a breve, e poi anche Unidata e Data4 hanno annunciato iniziative. Anche noi abbiamo fatto la nostra parte per convincere questi soggetti a investire: riteniamo che abbiano un ruolo cruciale per la crescita dell’hub di Roma, perché hanno la capacità di costruire strutture di massa critica tale da soddisfare le esigenze soprattutto dei grandi content provider.
La principale città d’Italia per le connessioni internet è Milano, dove negli ultimi anni sono nati tanti data center di società specializzate – Equinix, Data4, Supernap, Aruba e altri – e di grandi content provider, alcuni dei quali hanno realizzato (o stanno preparando) anche delle Region, cioè installazioni di qualche megawatt di potenza, con centinaia di rack distribuiti in 3-4 data center in una zona geografica ristretta. Questa è una cosa che difficilmente può essere fatta da un carrier, una telco o un IXP, ma sta per avvenire anche a Roma, dove negli ultimi 4 anni è triplicato il numero di operatori, e il traffico è aumentato in modo esponenziale: è ancora un quarto di quello di Milano, ma in recupero.
L’Italia è un paese stretto e lungo, e per come lavora il protocollo TCP/IP, le performance al Centro e soprattutto al Sud non sono soddisfacenti se il contenuto risiede a Milano, a svariate centinaia di chilometri dall’utente. Per questo tutti i content provider hanno replicato i loro contenuti a Roma, e li hanno interconnessi agli access provider. E questo sta facendo crescere il traffico dati negli ultimi anni, e continuerà a farlo crescere, a Roma e in Italia, favorendo anche la crescita del mercato dei data center.
Quali sono secondo voi le principali determinanti di questa crescita?
Noi vediamo soprattutto come si stanno espandendo le esigenze degli ISP. I contenuti sono diventati HD, poi 4K, e sempre più vengono fruiti alla massima risoluzione grazie allo sviluppo delle reti FTTH. Ci sono applicazioni molto sensibili alla latenza, dove il millisecondo diventa importante, per esempio il gaming, le transazioni finanziarie, o quella che è la vera “killer application”: gli eventi live in HD, soprattutto le partite di calcio, fruiti da milioni di persone contemporaneamente. Questo richiede che il contenuto sia sempre più vicino all’utente finale, perché il massimo throughput è inversamente proporzionale alla distanza.
La tendenza è questa, poi ci sono altri fattori su cui abbiamo meno visibilità. Primo tra tutti la trasformazione digitale delle aziende, il loro accesso a servizi cloud, che vengono erogati dai big player ma anche dagli ISP con offerta trasversale. Anche questo fa crescere l’importanza dei data center, le cui strutture sono in continua crescita: siamo passati da qualche rack che consuma qualche kW, alla singola installazione con centinaia di rack che consumano qualche MW.
Ormai i data center sono un’infrastruttura critica per il sistema paese, dai videogiochi alle banche fino alla sanità e alla pubblica amministrazione, e per tutto il mondo al di là dei confini tra i paesi. E presuppongono determinate masse critiche, per assicurare i necessari livelli di sicurezza e ridondanza, che non sono alla portata di strutture piccole e “artigianali”.
È da queste tendenze che è nata l’idea di aprire IXP a Bari e a Napoli?
Esattamente. Come dicevo, il contenuto deve essere sempre più vicino all’utente, e inoltre la creazione di più punti crea ridondanza, rendendo le connessioni più stabili.
Per questo a Bari Namex ha aperto un “edge IXP”, un piccolo data center: abbiamo spazio per 40 rack. Possono ospitare i contenuti dei content provider, che hanno sistemi di distribuzione basati su cache gerarchici: dalle centinaia di rack nei grandi hub a pochi rack nei centri edge, che riescono comunque a fare throughput importanti localmente.
Bari è interessante per una serie di motivi. La Puglia è una delle regioni più ricche del Sud, ha un buon numero di ISP locali: sono classiche PMI che fatturano qualche milione di euro, ma hanno clienti anche grandi sul territorio, con brand conosciuti in tutto il mondo ma che si affidano a una realtà locale perché hanno la necessità di alcuni servizi internet “cuciti su misura”.
Poi, visto che non ci sono operatori di data center locali, anche qui offriamo servizi di co-location agli ISP, tra cui anche i grandi carrier nazionali. Inoltre Bari è abbastanza distante da Roma, che è l’IXP più vicino, e ci arrivano molti cavi sottomarini, alcuni relativamente nuovi. Uno intercontinentale arriva da Singapore, uno dalla Grecia, uno dall’Albania, uno da Israele.
Napoli è una sfida per certi versi analoga e per altri diversa. È più vicina a Roma, ma era anche la città italiana più grande che non aveva ancora un IXP. C’è un’alta densità di popolazione, con un gran numero di ISP locali da connettere, e anche lì c’è l’esigenza di portare contenuti vicino all’utente e l’opportunità di offrire co-location.
Come evolverà il mercato nei prossimi anni dal vostro punto di vista?
Il traffico internet in Italia continuerà a crescere per molti anni, e così anche le infrastrutture di data center, anche perché la trasformazione digitale è ancora in una fase abbastanza iniziale.
Abbiamo la fortuna di capitalizzare le esperienze che altre città hanno avuto negli anni passati, come Milano e ancora prima Francoforte, Amsterdam, Londra, Parigi. Una tendenza importante è che il baricentro del traffico internet si sta spostando verso sud. Con i nuovi cavi arrivati a Genova ci sarà una grande crescita di Milano come hub, ma Roma assumerà un ruolo sempre più importante grazie a nuove rotte di cavi sottomarini verso sud, come il Trans Adriatic Express dall’Albania alla Puglia, il BlueMed, o il progetto Medusa verso l’Africa.
L’Italia ha perso un’occasione importante 20 anni fa per assumere un ruolo importante per il traffico internet, ma allora la politica non era pronta a capire: il mezzo di comunicazione più importante era ancora la TV. Ora sta passando un altro treno, ma stavolta Governi e istituzioni sono più sensibili. Come centinaia di anni fa abbiamo fatto le strade, ora tocca alle infrastrutture digitali.