Chip Reshoring: le potenze mondiali cercano di riportare la produzione in casa

Chip Reshoring: le potenze mondiali cercano di riportare la produzione in casa
La grandi manovre in corso in Europa, USA, Giappone, India per rendersi indipendenti dalle regioni più calde dell'Asia, in un settore che nel 2030 varrà mille miliardi di dollari

In tutto il mondo c’è fermento per riportare fuori dall’Asia, e in particolare fuori da Taiwan, la produzione dei chip, che siano microprocessori, chiplet, memorie o altro. La situazione è in ebollizione, con molte novità che si susseguono a ritmo serrato.

Intel, AMD e Nvidia hanno iniziato a ordinare meno chip al colosso taiwanese TSMC e gli accordi complessivi porteranno a una diminuzione del fatturato di TSMC in alcuni trimestri del 2023. Sulla carta l’impatto sarà limitato e porterà un aumento delle scorte di wafer, e la riduzione della produzione, soprattutto nel settore delle memorie, ha portato ad una riorganizzazione generale dei piani industriali.

Abbiamo pensato di raccogliere alcuni degli avvenimenti per tratteggiare un ipotetico futuro.

I numeri del fatturato mondiale

Il mercato mondiale dei chip di fine 2022 è stato valutato tra 0,5 trilioni e 0,6 trilioni dove un trilione vale mille miliardi e l’unità di conto è il dollaro (ma l’euro è molto vicino alla parità). Con una minima estrapolazione, nel 2030 potrebbe valere 0,840 trilioni. L’Unione Europea porta la stima a 1 trilione tondo. Per confronto, il PIL mondiale del 2022 è stato valutato circa 100 trilioni; l’Italia supera di poco i 2 trilioni.

Secondo stime approssimative, Europa e Stati Uniti producono ciascuno il 10% dei chip del mondo, una quota resa ancora meno rilevante dalla ridotta tecnologia impiegata. Si tratta infatti quasi esclusivamente di microprocessori a basso livello tecnologico, destinati ai mercati automotive, dell’elettronica di consumo e dell’automazione. Non certo dei chip che alimentano pc e smartphone . Entrambe le macro-aree pensano di essere leader nella progettazione di questi dispositivi e di poter delocalizzare la produzione finale.

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Orbene, se la prima affermazione meriterà di essere verificata sul campo, la seconda è chiaramente frutto di una scelta dissennata. Ovunque nel mondo è oggi chiaro che la filiera va tenuta parzialmente in casa, siano chip, alimenti o qualsiasi altra cosa. Ecco perché le varie macroregioni hanno iniziato a investire denari seri nella costruzione di fabbriche e nel loro approvvigionamento. La seconda operazione appare più problematica, sia per la previdenza della Cina, sia per la costante evoluzione della chimica e della simulazione. Alle dichiarazioni delle macroaree si affiancano anche quelle dei singoli produttori, tra i quali Intel o la stessa TSMC, i cui investimenti verranno in parte finanziati dai fondi delle macroaree.

US Chips Act: 53 miliardi in 10 anni

Negli Stati Uniti hanno una visione più ampia, il loro CHIPS and Science Act assegna grandi risorse anche per lo STEM nel decennio 2022-2032. Le risorse, che sono in continua ridiscussione, hanno una parte pubblica ed una privata. La parte pubblica prevede 52,7 miliardi di dollari, di cui 39 per il solo manufacturing. Altre aziende hanno annunciato investimenti, tra i quali Micron (40 miliardi), Qualcomm (4 miliardi) ed altri, per un totale valutato tra 200 miliardi e 280 miliardi. Ma arriveranno anche altri denari, perché negli States il fattore moltiplicativo del capitale privato è dato per scontato.

European Chips Act: 43 miliardi in 7 anni

Lo European Chips Act, che dovrebbe essere attivo entro la metà del 2023, prevede investimenti valutati in 43 miliardi di dollari nei sette anni dal 2023 al 2030. L’obiettivo è di passare da un fatturato continentale che nel 2021 varrebbe 50 miliardi (il 10% di 500) a 200 miliardi (il 20% di 1 miliardo) nel 2030. Le cifre sono approssimate anche nei conti ufficiali.

È interessante notare che ne sarà delle nuove fabbriche promesse da Intel a Germania ed Italia. Intel ha sempre creduto nella produzione in fabbriche di proprietà, sta cogliendo l’occasione che l’Europa e gli States le offrono. Già di suo, nel marzo ‘22 Intel annunciò 80 miliardi di investimenti in Europa, su tutta la filiera, in un arco di 10 anni. Possiamo poi chiederci che faranno Infineon (tedesca), STM (franco-italiana, sede in Svizzera) e anche se TSMC farà mosse nel Vecchio Continente. Molto importante sarà anche lo sviluppo dei dispositivi di eccellenza nella litografia della ASML (olandese).

Proprio ASML però, attraverso il suo amministratore delegato Peter Wennink, ammonisce sugli effetti a lungo termine delle sanzioni. Il blocco delle esportazioni contro la Cina potrebbe spingere Pechino a sviluppare macchinari propri per la produzione di chip, annullando il vantaggio europeo e statunitense in questo settore.

I Paesi nei quali sono nati i principali fornitori di apparecchiature per la produzione di semiconduttori sono Olanda e Giappone. I due Paesi, che sono in contatto su come gestire l’esportazione in Cina di questa tecnologia, non dovrebbero spingersi fino alla durezza delle norme USA.

A parte bisognerà valutare la situazione di Arm, una design house che non produce direttamente chip ma progetta architetture finite dappertutto, dai wearables ai server di Apple, Qualcomm, Amazon e molti altri. Per chi non la conoscesse, un buon punto di partenza è questa intervista a Rene Haas, CEO di Arm. Arm è britannica, quindi non fa parte dell’Unione europea ma certamente dell’Europa, e le nuove regole di sfruttamento dei suoi progetti stanno creando molti problemi alle aziende cinesi.

L’European Chips Act integra le iniziative dell’UE già in corso nel settore dei semiconduttori, tra le quali l’Alliance on Processors and Semiconductor Technologies, IPCEI on microelectronics and communication technologies ed RFF funding come per la costruzione di un impianto da 292,5 milioni di euro nella catena del valore dei semiconduttori a Catania.

Regno Unito

Secondo Bloomberg, il Regno Unito sta per completare un suo UK Chips act. Il piano comprenderebbe capitale di avviamento per le startup, aiuto alle imprese esistenti per espandersi e nuovi incentivi per il capitale di rischio privato. Inoltre dovrebbe essere istituita una task force per aumentare la produzione britannica di semiconduttori in soli tre anni.

La cifra della quale si parla dovrebbe essere nell’ordine dei 5-10 miliardi di euro.

In una conferenza dello scorso anno, Sunak si è impegnata a utilizzare le libertà della Brexit del Regno Unito per ridurre gli ostacoli normativi all’innovazione.

La questione riguarda direttamente anche l’anima britannica di Arm, che nel dicembre 2022 ha iniziato ad adottare restrizioni. Secondo City AM, la prima big cinese ad essere colpita sarebbe stata Alibaba.

Rapidus: 42 miliardi in 7 anni per il “Chips Act” giapponese

Il Giappone ha recentemente varato una serie di interventi a favore della microelettronica. L’iniziativa ha un nome di quadro, Rapidus, e pare coordinata anche dal Governo nipponico.

La fabbrica verrebbe realizzata da TSMC o Samsung. Non si capisce bene l’entità dell’intervento privato né dell’eventuale quota pubblica, ma si partirebbe da 42 miliardi di Euro (7 da ciascuno dei 6 fondatori) per produrre in casa chip avanzati. La valutazione di 42 miliardi è quindi una nostra ipotesi iniziale, sulla scorta delle informazioni disponibili. Il timeframe prevede che gli investimenti si completino entro il 2030, ma con le prime produzioni già entro il 2025.

Cina

La situazione cinese ci riserverà certamente grosse sorprese. Intanto Huawei, che ha subito grossi problemi per l’embargo tecnologico dagli Usa, ha annunciato chip da 12 nm nel 2023. Intanto la competitività nazionale è affidata a Biren, il chip per AI progettato in casa. Biren si affianca all’A800, una versione dello Nvidia A100 che -in quanto depotenziata- può essere fornita ai produttori cinesi.

Corea del Sud

Nonostante la recessione, Samsung continua ad essere molto forte sul mercato, tanto da essere ancora in lizza per costruire la nuova fabbrica giapponese. Già produce chip a 3nm, ma la produzione in volume dei 3nm è attesa più avanti nel 2023. Ricordiamo che già da qualche anno i processi produttivi di ciascuna azienda si sono diversificati, per cui il processo a x nanometri del produttore A non ha occupazione né potenza identiche al processo sempre a x nanometri ma del produttore B.

India

Un fortissimo competitor dei prossimi anni, e non solo nella nanoelettronica ma anche, per esempio, nella space economy, sarà la Federazione Indiana, in breve India, uno spazio di 28 Stati e 8 territori che assommano gli stessi abitanti della Cina ma con spazi di manovra economica ben diversi.
Secondo l’India Semiconductor Market 2022 il mercato locale, che nel 2021 valeva 23 miliardi, crescerà del 17% composto annuo fino a superare gli 80 miliardi nel 2028. Estrapolando al 2030 per fare un raffronto omogeneo, anche se perdendo un po’ in precisione, superiamo i 100 miliardi.

Taiwan

TMSC, l’azienda fondata da Morris Chang, un taiwanese che è stato per 25 anni in Texas Instruments, sta contemporaneamente aumentando la capacità produttiva anche a Tainan (Taiwan), con un investimento che a regime sarà costato 60 miliardi. Nel parlare di TSMC, e in subordine di Samsung, non bisogna dimenticarsi di UMC, altra foundry taiwanese di rilievo nel mondo. L’ultimo annuncio disponibile, rilasciato a febbraio 2022, annuncia che 5 miliardi basteranno per la nuova fabbrica singaporegna la cui produzione inizierà nel 2024. La produzione sarà però basata sul processo a 28/22nm.

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TSMC sta cambiando pelle, fornitori, clienti, attività. Queste variazioni aumentano l’incertezza già forte sui mercati, per cui le sue azioni siano scese del 60% in 10 mesi. A questo punto Warren Buffet ha investito oltre 4 miliardi di dollari in TSMC. La cosa è stata presa con incredulità dai consueti investitori.

Cosa resterà di TSMC in Taiwan?

I chip d’oggi sono il risultato di oltre mille fasi di lavorazione che richiedono vari materiali. La Cina è stata previdente e si è assicurata forniture per gli anni a venire, lavorando meglio degli Stati Uniti e dell’Europa.

La gran parte della produzione mondiale è effettuata da TSMC. L’azienda sta aprendo una nuova fabbrica di chip avanzati, azione che parte solo se si è sicuri di un futuro. D’altronde i miliardi di Warren Buffett sono un altro indice di futuro. Ci permettiamo di fare un’ipotesi: e se Cina e US avessero un gentlemen’s agreement che permette al mondo di portare fuori da Taiwan la competenza di TSMC per lasciare alla futura provincia riunificata una certa potenza di produzione utile per la tecnologia cinese?

Diciamo una “certa” potenza di produzione perché probabilmente ci saranno opinioni discordanti sulla residua operatività. L’effettivo aggiornamento dei macchinari di quelle produzioni, e i contratti di futuro approvvigionamento di macchinari aggiornati, saranno frutto di liti e contenziosi successivi alla riunione di Taiwan con il resto del Paese al centro del mondo, se e quando avverrà.

Una volta tornata in Cina, quella fabbrica varrà probabilmente zero per il resto del mondo, ma sarà centrale per lo sviluppo di una tecnologia interamente proprietaria. Di quella strategia oggi fa parte il chip Biren, la cui robustezza e il cui ecosistema andranno valutati negli anni. Certamente questo ecosistema verrà corroborato da chip basati su progettazione Arm, che ormai spaziano dagli smartwatch ai server. È possibile che a breve termine verrà tentata anche la strada di una CPU innovativa la cui filiera sarà interamente cinese.

(Articolo pubblicato il 23 gennaio 2023 e aggiornato il 2 febbraio per includere informazioni sul Regno Unito e le opinioni di ASML)

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Digitalizzazione: Italia al 17% degli obiettivi del PNRR, Germania a zero

Digitalizzazione: Italia al 17% degli obiettivi del PNRR, Germania a zero
Il nostro paese è primo in Europa nell’attuazione della componente di trasformazione digitale del programma: ecco lo stato d'avanzamento secondo l’Osservatorio Agenda Digitale

Nel PNRR l’Italia ha a disposizione 48 miliardi di euro per digitalizzare imprese e PA (40 miliardi nella missione 1, dedicata alla digitalizzazione, e 8 miliardi nelle altre), cioè più di un terzo di tutte le risorse europee per il digitale nel Next Generation EU. Per dare un’idea, la Spagna ha avuto per il digitale 20 miliardi, la Germania 13 e la Francia 8.

Ma forse altrettanto importante è il fatto che dai dati aggiornati a dicembre 2022 l’Italia risulta anche il paese più avanti nell’attuazione dei progetti di digitalizzazione previsti dal PNRR: siamo al 17% di completamento dei target e milestone, contro il 10% di Spagna e Francia e addirittura lo zero di 15 Paesi tra cui nientemeno che la Germania.

Sono alcuni degli aggiornamenti emersi ieri nel convegno annuale dell’Osservatorio Agenda Digitale del Politecnico di Milano sullo “stato dell’arte” della componente dedicata al digitale del PNRR, e in particolare della digitalizzazione della Pubblica Amministrazione (PA), per la quale il piano riserva quasi 10 miliardi.

“A che punto siamo dopo un anno e mezzo? La sfida è enorme ma siamo messi bene, siamo il paese che percentualmente ha completato di più, il 17% di tutte le promesse di 5 anni”, ha commentato Luca Gastaldi, Direttore dell’Osservatorio Agenda Digitale e Membro della Segreteria tecnica per l’attuazione del PNRR presso la Presidenza del Consiglio. “Per fare un confronto, la Germania a fine 2022 non aveva ancora fatto niente, e ha spostato le sue milestone più avanti nel tempo”.

A che punto siamo dopo un anno e mezzo? La sfida è enorme ma siamo messi bene, siamo il paese che percentualmente ha completato di più

Indice DESI: l’Italia è salita al 18esimo posto, ma…

Cominciamo dallo stato di digitalizzazione generale del paese. Nell’edizione 2022 del DESI, l’indice europeo di digitalizzazione dell’economia e della società (di cui abbiamo ampiamente riferito qualche mese fa in questo articolo), l’Italia è risalita di due posizioni, rimanendo però nella parte bassa del ranking, al 18esimo posto su 27 Stati membri. Ancora lontano quindi da Spagna, Germania e Francia, e particolarmente indietro nella diffusione di competenze digitali e appunto nella digitalizzazione della PA, mentre è sopra la media per la connettività e la digitalizzazione delle imprese.

“Indietro eravamo, indietro siamo”, ha commentato Francesco Olivanti, ricercatore dell’Osservatorio, durante il convegno. “Non c’è motivo di essere troppo ottimisti o troppo pessimisti, c’è qualche segnale di ripresa, e gli indicatori su cui facciamo particolarmente bene o particolarmente male sono pochissimi”.

Indietro eravamo, indietro siamo. Non c’è motivo di essere molto ottimisti nè molto pessimisti

Il quadro quindi non è esaltante, ma potrebbe essere addirittura sopravvalutato. L’Osservatorio infatti per superare i limiti di completezza dei parametri del DESI ha elaborato i Digital Maturity Indexes (DMI), un framework di maturità digitale con 109 indicatori. E il risultato vede l’Italia ancora più in basso: al 22esimo posto per creazione dei fattori abilitanti all’attuazione dell’Agenda Digitale, al 20esimo per risultati ottenuti. Il nostro paese è sopra la media per copertura 5G, diffusione del cloud, fatturazione elettronica, ma si conferma in ritardo sulla digitalizzazione dei servizi pubblici.

Inoltre l’Osservatorio ha calcolato un DESI regionale, da cui emerge il solito ritardo sulla digitalizzazione delle regioni del Sud rispetto a quelle del Centro-Nord, ma anche – piuttosto a sorpresa – una sensibile arretratezza di queste ultime rispetto a Regioni europee simili (per caratteristiche del territorio e benessere economico) su tutti i parametri, tranne l’accesso alla banda larga.

Servizi pubblici digitali: a che punto siamo su open data, piattaforme, interoperabilità e cloud

Nel PNRR la PA ha un ruolo fondamentale, sia come oggetto di investimenti (almeno il 60% delle risorse è destinata a enti o imprese pubbliche), sia per l’attuazione del piano, visto che tutte le risorse sono gestite e rendicontate da Ministeri e altri enti pubblici.

Tutto ciò è coerente con l’impegno, in corso da vari anni, a realizzare un modello “Government as a Platform” con cui proporre la PA come piattaforma di innovazione, attraverso lo sviluppo ed erogazione di servizi pubblici digitali basati su 4 principali componenti: dataset e componenti condivisi, piattaforme centralizzate di servizi pubblici, modelli di interoperabilità applicativa basati su API e standard aperti, e soluzioni cloud per garantire scalabilità, controllo della sicurezza ed efficienza nella gestione di risorse e infrastrutture.

Nel 2022, spiega l’Osservatorio, si sono registrati importanti risultati su tutti questi componenti.

Per quanto riguarda i dataset, l’ANPR è ormai una soluzione consolidata, con tutti i Comuni italiani subentrati. Il Fascicolo Sanitario Elettronico, attivo dal 2019, non è ancora completamente operativo e interoperabile in tutte le Regioni, ma sono accessibili oltre 417 milioni di referti digitalizzati. E quasi 60.000 open data popolano il portale dati.gov.it, definita dall’Osservatorio un’eccellenza a livello europeo.

Per le piattaforme, pagoPA vede oltre 19.000 PA aderenti, oltre 400 prestatori di servizi di pagamento coinvolti e circa 650 milioni di transazioni effettuate per oltre 126 miliardi di euro. SPID è utilizzato da un maggiorenne su due, con oltre un miliardo di accessi nel 2022, mentre la CIE è stata usata 21 milioni di volte per accedere a servizi digitali. L’App IO nel 2022 è stata scaricata da oltre 32 milioni di italiani e le oltre 12.000 PA presenti nell’App offrono più di 170.000 servizi. Inoltre è partito un Proof of Concept della Piattaforma Notifiche Digitali (ne abbiamo parlato qui), che permetterà l’invio di notifiche con valore legale.

Per l’interoperabilità, la Piattaforma Digitale Nazionale Dati (PDND), attiva da ottobre, abiliterà lo scambio automatico di dati tra PA e favorirà l’interoperabilità di sistemi informativi e basi dati pubbliche, mentre il Progetto Mobility as a Service for Italy (MaaS) dedica 57 milioni del PNRR all’integrazione e interoperabilità di servizi di trasporto pubblico e privato.

Per l’infrastruttura cloud, è stato costituito il Polo Strategico Nazionale (PSN) (ne abbiamo parlato qui) che ospiterà i dati e servizi critici e strategici delle PA italiane, ed è iniziata la migrazione di dati e servizi di oltre 12mila enti locali, ma siamo ancora lontani dalla dismissione e razionalizzazione degli oltre 11.000 data center delle PA italiane.

Acquisti pubblici della PA, i tre punti su cui agire

Altro capitolo importante è l’aggiornamento sulla digitalizzazione degli acquisti pubblici della PA, che nel 2021 ha comprato lavori, servizi e forniture per circa 200 miliardi di euro. Qui i punti su cui agire secondo l’Osservatorio sono tre: digitalizzare l’intero processo di procurement pubblico, superare la dipendenza da pochi vendor, e ridurre i tempi di assegnazione delle gare.

Sul primo fronte, ll nuovo Codice dei contratti pubblici, che entrerà in vigore il prossimo 1 aprile, prevede un’accelerazione nella gestione degli appalti pubblici tramite piattaforme digitali interoperabili e qualificate.

Sul secondo, la PA acquista da aziende private sostanzialmente tutte le sue soluzioni digitali, 5,7 miliardi di euro nel 2021, ma il 67% della spesa pubblica in servizi digitali è concentrato su 50 fornitori, e il 31% su 5 soli fornitori.

Occorre ripensare ai meccanismi di progettazione delle gare pubbliche, troppo spesso sono disegnate per prevenire ricorsi e contenziosi

Quanto al terzo, oggi sono necessari mediamente 4 mesi e mezzo per assegnare una gara pubblica per soluzioni digitali. “Dobbiamo completare la riforma del Codice dei contratti pubblici, accelerando la loro digitalizzazione, e ripensare ai meccanismi di progettazione e risposta delle gare pubbliche, troppo spesso disegnate per prevenire ricorsi e contenziosi, e portare competenze di approvvigionamento all’interno di tutte le PA”, dichiara Mariano Corso, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Agenda Digitale.

Occorrono una regia di coordinamento, e supporto per le PA locali

Tra le raccomandazioni dell’Osservatorio c’è la necessità di definire una regia di coordinamento sui temi dell’Agenda Digitale. Dalla banda larga alle competenze digitali agli interventi di digitalizzazione del PNRR, gli interventi sono molti e complessi, e richiedono la collaborazione in tempi stretti di molti attori pubblici e privati.

In particolare le PA locali (Regioni, Province, Comuni, Città metropolitane, ASL e aziende ospedaliere), che gestiranno oltre 66 miliardi di euro del PNRR e molte delle risorse complementari, hanno bisogno di supporto nell’implementazione dei loro interventi. “È fondamentale fare gioco di squadra – dice Michele Benedetti, Direttore dell’Osservatorio Agenda Digitalesemplificando e razionalizzando le interazioni tra titolari e utilizzatori dei fondi, cercando di portare a sistema buone pratiche nell’implementazione e favorendo le aggregazioni tra enti locali. Altrimenti i divari di digitalizzazione tra i territori sono destinati ad aumentare”.

Agenda Digitale, inizia una nuova fase nell’attuazione

In conclusione il bilancio dell’Osservatorio è positivo: il DESI segnala qualche passo avanti, il PNRR mette a disposizione risorse imprevedibili fino a qualche anno fa, e mai viste come dimensioni, e inizia a concretizzarsi il modello di “Government as a platform”. Come abbiamo visto però gli elementi di preoccupazione e ritardo non mancano. Il tutto porta l’Osservatorio a parlare di inizio di una nuova fase nell’attuazione dell’Agenda Digitale dell’Italia.

Per l’Italia digitale, questa è la più importante chiamata della storia moderna

“Per l’Italia digitale, questa è la più importante chiamata della storia moderna – ha dichiarato Alessandro Perego, Direttore Scientifico degli Osservatori Digital Innovation -. Ora è necessario tradurre in realtà le ambizioni del PNRR, portando a termine nei tempi previsti gli interventi di digitalizzazione e accelerando sugli ambiti più critici, come lo sviluppo di competenze digitali tra la popolazione. Dobbiamo dedicare i prossimi mesi a raccordare visioni, risorse e sforzi che, se non ben allineati, rischiano di far perdere tempo ed energie cruciali”.

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