Gli smart worker italiani scendono a 3,6 milioni, ma nel 2023 aumenteranno nella PA
Secondo una nuova ricerca dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, nel 2022 in Italia il lavoro da remoto continua a essere utilizzato in modo consistente, anche se in misura minore rispetto allo scorso anno. In particolare si evidenzia una decisa frattura tra l’atteggiamento delle grandi imprese, e quello di PMI e PA.
I lavoratori da remoto oggi sono circa 3,6 milioni, quasi 500 mila in meno rispetto al 2021. Il calo è concentrato nella PA e nelle PMI, mentre si rileva una leggera ma costante crescita nelle grandi imprese che, con 1,84 milioni di lavoratori, contano circa metà degli smart worker complessivi. Per il prossimo anno si prevede un lieve aumento fino a 3,63 milioni, grazie al consolidamento dei modelli di smart working nelle grandi imprese e a un’ipotesi di incremento nel settore pubblico.
Lo smart working è ormai presente nel 91% delle grandi imprese italiane (era l’81% nel 2021), mediamente con 9,5 giorni di lavoro da remoto al mese e progetti che quasi sempre agiscono su tutte le leve che caratterizzano questo modello.
Una tendenza opposta si riscontra nelle piccole e medie imprese (PMI), in cui lo smart working è passato dal 53% al 48% delle realtà, in media per circa 4,5 giorni al mese. A frenare in queste realtà è la cultura organizzativa, che privilegia il controllo della presenza e percepisce lo smart working come una soluzione di emergenza. Rallenta anche la diffusione nella Pubblica Amministrazione, che passa dal 67% al 57% degli Enti, con in media 8 giorni di lavoro da remoto al mese. In questo caso a pesare sono soprattutto le disposizioni del precedente governo che hanno spinto a riportare in presenza la prestazione di lavoro, ma per il futuro si prevede un nuovo aumento.
Cresce l’importanza dei costi energetici come altro fattore favorevole allo smart working
L’impatto dello smart working è sempre più positivo per effetto dell’aumento dei costi energetici. Un lavoratore che operi due giorni a settimana da remoto risparmia in media circa 1000 euro all’anno per effetto della diminuzione dei costi di trasporto. Nella stessa ipotesi di due giorni alla settimana di lavoro da remoto l’aumento dei costi dei consumi domestici di luce e gas può incidere però per 400 euro l’anno, riducendo il risparmio complessivo a una media di 600 euro l’anno.
Lo smart working permette inoltre una riduzione dei costi potenzialmente più significativa per le aziende. Consentire ai dipendenti di svolgere le attività lavorative fuori della sede per 2 giorni a settimana infatti permette di ottimizzare l’utilizzo degli spazi isolando aree inutilizzate e riducendo i consumi, con un risparmio potenziale di circa 500 euro l’anno per ciascuna postazione. Se a questo si associa la decisione di ridurre gli spazi della sede del 30%, il risparmio può aumentare fino a 2.500 euro l’anno a lavoratore.
L’applicazione dello smart working permette anche di ottenere benefici a livello ambientale riducendo le emissioni di CO2 di circa 450 Kg annui per persona. Questo è il risultato di due componenti su base annua:
- Riduzione degli spostamenti, che permette il risparmio di 350 Kg di CO2
- Emissioni risparmiate nelle sedi delle organizzazioni che hanno introdotto lo Smart Working (pari a circa 400 Kg di CO2) al netto delle emissioni addizionali dovute al lavoro dalla propria abitazione (in media circa 300 Kg di CO2).
Considerando il numero degli smart worker attuali pari a 3,57 milioni di lavoratori, l’impatto a livello di sistema Paese sarebbe di circa 1,5 milioni di tonnellate di CO2, circa uguale a quella assorbita da un bosco con estensione 8 volte quella del comune di Milano.
La necessità di modificare gli spazi di lavoro
L’esperienza forzata del lavoro lontano dall’ufficio e la volontà di favorire il rientro, anche se parziale, delle persone nelle sedi ha accresciuto nelle organizzazioni la consapevolezza di modificare gli spazi di lavoro per creare ambienti che motivino e diano un senso al lavoro in ufficio, supportando in modo efficace le attività che più si prestano a essere svolte in questo contesto. Il 52% delle grandi imprese, il 30 % delle PMI e il 25% della PA hanno già effettuato interventi di modifica degli ambienti o lo stanno facendo in questi mesi. In prospettiva futura queste iniziative sono previste o in fase di valutazione nel 26% delle grandi imprese, nel 21% delle PA e nel 14% delle PMI.
Il ripensamento degli spazi è fondamentale per favorire il rientro in ufficio che, nel 68% delle grandi imprese e nel 45% delle PA, ha incontrato resistenze da parte delle persone. L’evoluzione futura dei modelli di smart working prevede sostanzialmente lo stesso numero di giorni da remoto di quelli attuali, ma si prevedono nuovi modelli di workplace con “spazi identitari” e finalizzati a favorire la collaborazione e l’interazione con colleghi e stakeholder prima ancora che il lavoro individuale.
I tre profili di lavoratori dell’era smart working
In base alla modalità di lavoro adottata, è possibile identificare tre profili di lavoratori:
- On-site worker, che lavorano stabilmente presso la sede di lavoro
- Lavoratori remoti non smart, che hanno la possibilità di lavorare da remoto ma non altre forme di flessibilità
- Smart worker, che hanno flessibilità sia di luogo sia oraria e lavorano secondo una logica orientata agli obiettivi
Analizzando il benessere dei lavoratori sia dal punto di vista psicologico che relazionale, gli smart worker hanno migliori risultati sia rispetto agli on-site worker sia ai lavoratori remote non smart. Questi ultimi mostrano livelli di benessere più bassi non solo rispetto agli smart worker, ma su molte dimensioni anche rispetto ai lavoratori on-site che non hanno la possibilità di lavorare da remoto.
La sola possibilità di lavorare da remoto, se non accompagnata da un’opportuna revisione del modello organizzativo, non dà benefici ai lavoratori in termini di benessere personale e coinvolgimento lavorativo. I lavoratori che manifestano i livelli più elevati di benessere sono infatti gli smart worker, tra i quali il 13% risulta pienamente ingaggiato, mentre i lavoratori remote non smart privi di flessibilità ulteriori oltre a quelle di luogo di lavoro, risultano avere minore benessere e un livello di engagement molto basso (6%), inferiore non solo ai veri smart worker, ma anche ai lavoratori on-site (12%).
Chi ha applicato lo smart working in modo emergenziale durante la pandemia deve essere consapevole che, se tornare indietro a un modello tradizionale di lavoro on-site può risultare difficile o impopolare, fermarsi a una applicazione superficiale, senza un’evoluzione coerente del modello organizzativo e manageriale che preveda una crescita di autonomia nella gestione degli orari e nel lavoro per obiettivi, rischia di non far ottenere benefici di miglioramento di produttività e benessere e addirittura di peggiorare la situazione rispetto a una condizione tradizionale di lavoro on-site.