Neuromarketing: cos’è e cosa ha a che fare con le tecnologie digitali
Il Neuromarketing si prefigge di illustrare ciò che accade nel cervello delle persone in risposta a precisi stimoli provenienti da diverse forme comunicative, come le pubblicità tradizionali presentate su supporti cartacei, l’advertising digitale, lo shopping nei negozi o la visita di un sito web.
Ha quindi lo scopo di determinare, tramite la decodifica dei comportamenti, dei valori e delle argomentazioni, le strategie vincenti che spingono il pubblico alla decisione e all’acquisto.
Il Neuromarketing deriva da studi scientifici che ricadono nell’ambito delle neuroscienze, ovvero quella branca di studi che indaga per conoscere più approfonditamente il comportamento dell’organo più complesso dell’uomo: il cervello.
Grazie allo sviluppo di strumentazioni tecnologiche sempre più precise e allo sviluppo di altre strumentazioni che derivano anche dal mondo della difesa, negli ultimi due decenni si sono potute conoscere molte informazioni su come il nostro cervello si comporta in risposta a determinati stimoli.
Alcuni primi studi e teorie, nascono già nella seconda metà degli anni ‘90, ma è soltanto a partire dall’anno 2000 che le strumentazioni consentono indagini sufficientemente accurate. Infine, in quest’ultimo decennio, la messa a punto di ulteriori strumenti sviluppati da alcuni laboratori certificati ha consentito di ottenere analisi sempre più precise.
L’Italia è stata tra le prime ad approcciare questa ricerca e a disciplinarla grazie all’AINEM – Associazione Italiana di Neuromarketing – di cui il prof Francesco Gallucci è fondatore, direttore scientifico e vicepresidente.
Per conoscere meglio l’argomento e le sue implicazioni per chi si occupa di digitale, da chi progetta le interfacce e l’usabilità dei software a chi crea e pianfica campagne di digital marketing, abbiamo intervistato Luca Vivanti, da due anni assistente alla docenza del prof. Gallucci in un corso di Neuromarketing presso il Politecnico di Milano e professore a contratto presso il Politecnico di Torino, oggi ambassador di AINEM.
CWI: dove e come si utilizza oggi il neuromarketing?
Luca Vivanti: Le applicazioni sono molteplici e si può dire che non ci sia settore della società umana ove non possano venire applicate. Si parla infatti di Neuro-selling, Neuro-pricing, Neuro-language, Neuro-politics eccetera.
Parallelamente, le teorie e le tecniche di marketing tradizionale vengono confutate sempre più velocemente. La comunicazione digitale ha messo in crisi i consolidati sistemi di indagine sull’analisi comportamentale delle persone. Quindi grazie ad alcuni ricercatori è nata l’idea di provare a sfruttare gli strumenti creati nell’ambito delle neuroscienze allo scopo di trovare nuovi metodi analitici che consentissero lo sviluppo di aggiornate strategie di marketing. Il Neuromarketing si può grossolanamente dividere in due ampi settori: la ricerca teorica e gli applicativi di analisi.
La ricerca teorica si concentra sugli strumenti, sulle parole chiave, sulla messa a punto delle strumentazioni tecniche e dei software interpretativi, sull’etica dell’uso e altro ancora.
Nel secondo settore ricade invece l’ormai ampiamente sfruttato canale delle nuove indagini di mercato, che sfruttando le nuove tecnologie possono dare risposte più complete e precise di quelle tradizionali. Dato che l’analisi è supportata da strumentazioni scientifiche a diretto contatto con il nostro cervello e altre parti del corpo, gli stimoli e le emozioni che proviamo non possono essere alterate da eventuali “bugie” di chi si sottopone al test.
Ripetendo il medesimo test su un numero sufficiente di persone, e analizzando tutte le reazioni con appositi software certificati, si possono ottenere statisticamente dei valori sufficientemente corretti sui comportamenti di masse di popolazione più rilevanti.
Le analisi di Neuromarketing sono più corrette – se ben svolte e ancor meglio analizzate – di tante indagini di mercato tradizionali, proprio perché queste ultime si svolgono con metodi tradizionali, quali interviste e test a distanza fatti a gruppi di consumatori che possono essere anche non sinceri, falsando quindi i dati in maniera più o meno rilevante.
Sull’erroneità delle tradizionali indagini di mercato, basta citare il report Nielsen del 2019, nel quale quale si afferma che “l’82,3% dei prodotti nuovi che ogni anno vengono immessi sul mercato non sopravvivono oltre i 12 mesi, così come il 67,4% della pubblicità prodotta ogni anno subisce lo stesso destino. Malgrado ciò, la spesa globale ogni anno in ricerche di mercato (tradizionali) è superiore ai 45 miliardi di dollari.”
CWI: Quali tecnologie vengono usate per le ricerche in questo campo?
LV: I principali strumenti che vengono utilizzati nell’ambito del Neuromarketing sono: l’Eyetracker, l’EEG (elettroencefalografia), il Facial-Coding e il Neuro-Imaging. A questi si aggiungono anche strumentazioni mediche semplici come il misuratore di pressione sanguigna. L’utilizzo di tutti questi strumenti (raramente simultaneamente) consente di monitorare le persone che si sottopongono all’indagine in maniera tale da ottenere sempre risposte precise agli stimoli di qualsiasi genere a cui vengono sottoposte.
Un esempio pratico è nell’ambito della GDO, che ha fatto realizzare alcuni supermercati speciali (in Italia ad esempio ne gestisce uno la Ipsos) dove poter monitorare scientificamente il comportamento dei loro consumatori fidelizzati, i quali vengono invitati a visitare tali spazi non aperti al pubblico per fare una spesa monitorata, ma spontanea. Anche diverse multinazionali produttrici si appoggiano a strutture analoghe durante lo sviluppo di nuovi prodotti per verificare per esempio l’appeal del packaging.
CWI: Come potrebbe essere usato il neuromarketing da chi si occupa di comunicazione digitale?
LV: Fino a oggi, la comunicazione digitale è forse quella che ha meno sfruttato le potenzialità del Neuromarketing, anche se vi è intrinsicamente legata. Basti pensare a quanto si sia riconvertita la comunicazione alle piattaforme social. Se si pensa che il principale scopo della comunicazione è quello di colpire l’attenzione del consumatore, che l’attenzione del consumatore è diminuita a causa del sempre più intenso bombardamento comunicativo, che scientificamente si sa ormai che una persona per memorizzare un concetto necessità di un tempo di concentrazione superiore ai 30 secondi, che il gesto con il dito “switch-delete” (lo scorrimento così veloce che equivale praticamente a voler saltare o cancellare il contenuto) che meccanicamente operiamo sui social network non supera mediamente i 5 secondi, capiamo quindi di quale portata sia il problema.
Utilizzare il Neuromarketing per fare un pre-test di quanto vogliamo promuovere sui social, magari investendo budget considerevoli, forse sarebbe opportuno.
Un altro aspetto a mio avviso importante è quello dell’utilizzo dei dati prodotti dall’AI che le aziende commissionano e/o acquistano. Partire da un’analisi di Neuromarketing prima di commissionare la ricerca tramite l’AI, può servire a circoscrivere la mole di dati ricevuti. Il problema è che il cervello umano ha una capacità di elaborazione e concentrazione incomparabilmente ridotta rispetto all’AI.
Per il cervello umano, ricevere migliaia di dati provoca un blocco della capacità elaborativa. . Al nostro cervello serve una modesta quantità di dati, dell’ordine di decine o un paio di centinaia al massimo. Assolutamente non le migliaia di data points che un’intelligenza artificiale può elaborare e fornire. Ecco perché spesso la velocità e la quantità di elaborazione dell’AI non viene sfruttata o utilizzata, o perché spesso un progetto elaborato tramite l’AI non produce i risultati auspicati.
CWI: L’idea di predeterminare le reazioni della popolazione a certi stimoli, unita alla capacità di analisi e alla comunicazione capillare e personalizzata dei social media, può avere risvolti inquietanti. Quali sono le implicazioni etiche del neuromarketing e come vengono prese in considerazione?
LV: Oggi lo studio dell’etica della comunicazione digitale sta divenendo molto importante. Basti pensare all’AI che gestisce tutto il mondo digitale, che ha anche la capacità di auto-riprogrammarsi.
Un ampio dibattito sta investendo anche il settore del Neuromarketing per definire entro quali paletti si debba e si possa operare. Per questo si stanno ridefinendo i concetti della comunicazione Human-to-Human. Per lo stesso motivo AINEM sta istituendo una Brain&Mind Accademy, rivolta alla ricerca di come accrescere la capacità di ragionamento umano e farlo prevalere sull’AI. In fondo la società umana deve usare l’AI, ma non soccombervi come ipotizzava Isaac Asimov in alcuni suoi romanzi, forse lo scrittore di fantascienza che più di tutti si è posto ed ha affrontato con grande lungimiranza gli aspetti sociologici della convivenza tra uomo ed AI.
CWI: Come si può approcciare concretamente il Neuromarketing?
Sicuramente frequentando uno o più corsi specifici. Occorre peraltro rivolgersi a chi veramente si occupa di questa materia. Uno degli scopi di AINEM è quello di costruire una rete di centri di ricerca qualificati in Italia a cui potersi rivolgere per avere informazione e supporto specifico certificato. Quest’anno nasce la Brain&Mind Accademy di AINEM che organizza corsi certificati ad ogni livello.