Google e diritto all’oblio: 50 le cause sostenute dal Garante
Se avete fatto una richiesta a Google per essere rimossi dai risultati delle ricerche e la vostra richiesta è stata respinta, potete rivolgervi “in appello” al Garante per la privacy. E’ quanto hanno fatto 50 cittadini italiani, secondo i dati diffusi ieri dal Garante per la protezione dei dati personali, che ha reso noto il bilancio della propria attività a distanza di circa un anno e mezzo dalla sentenza sul “diritto all’oblio” emessa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
In base alla sentenza di maggio 2014, Google è tenuto a rimuovere, o almeno a prendere in considerazione la richiesta di rimozione, i link che compaiono nei risultati delle ricerche contenenti il nominativo di chi lo richiede.
“Di fronte al diniego di Google, gli utenti italiani possono rivolgersi in ‘appello’ al Garante per la privacy o all’autorità giudiziaria”, spiega la nota del Garante. “Una opportunità, quella del ricorso al Garante, sfruttata finora solo da un esiguo numero di persone a fronte delle migliaia di istanze rigettate dalla società di Mountain View”.
Il Garante ha accolto circa un terzo delle richieste pervenute, e ha proceduto ordinando a Google la rimozione dei link a pagine presenti sul web contenenti riferimenti alle persone interessate. “In tutti gli altri casi, invece, l’Autorità ha respinto le richieste ritenendo che la posizione di Google fosse corretta, risultando prevalente l’interesse pubblico ad accedere alle informazioni tramite motori di ricerca”, sottolinea il Garante. “Si trattava, infatti, in prevalenza, di vicende processuali di sicuro interesse pubblico, anche a livello locale, spesso recenti o per le quali non erano ancora stati esperiti tutti i gradi di giudizio. I dati personali riportati, tra l’altro, risultavano trattati nel rispetto del principio di essenzialità dell’informazione”.