Ring, la banda (ultra larga) non suona bene
Tanta buona volontà, utile a superare i diversi ostacoli che si frappongono alla realizzazione di un piano che pure l’Europa ci chiede di portare a termine, per elevare il Paese agli standard di connettività previsti dall’Agenda 2020.
Questa la sintesi che si può ricavare dalla chiusura dei lavori dell’ultimo Consiglio dei ministri dedicato all’esame del decreto legge sulla banda ultralarga.
Dopo giorni di attesa e di supposizioni su quale sarebbe stata la via più rapida per effettuare il switch off della rete in rame e accedere alla nuova infrastruttura in fibra, sembra che gli entusiasmi per il progetto Ring si siano raffreddati.
Il dado, dunque, non è tratto: il doppino in rame non si tocca. O almeno, per liberarcene, dovremo aspettare ancora un po’.
Stando al documento licenziato da Palazzo Chigi, infatti, la cifra messa a disposizione dal Governo per rispettare la scadenza comunitaria del 2020 ruota attorno ai sei miliardi di euro, da destinare alla realizzazione di un’infrastruttura che, assicurano gli esperti incaricati dall’esecutivo, sarà comunque in grado di fornire una connessione di 100 Mbps al 50% della popolazione e di 30 Mbps alla totalità degli utenti.
Sul come e sul quando le alternative e le ambiguità però sono troppe, e le dichiarazioni del premier Matteo Renzi sulla “banda ultralarga come abc della crescita” non valgono a risolvere i dubbi.
“la cifra messa a disposizione dal Governo per rispettare la scadenza comunitaria del 2020 ruota attorno ai sei miliardi di euro”
Il budget stanziato, di cui due miliardi a fondo perduto e quattro provenienti dalla Bei, servirà a suddividere il territorio nazionale in quattro cluster geografici, distinguendo opportunamente tra aree a successo di mercato e zone a fallimento sicuro: se nel primo caso è legittimo immaginare scenari tecnologici di ultima generazione, nel secondo la priorità è la riduzione, in tempi stretti, del digital divide. Su entrambi i fronti, tuttavia, il Governo parla di “scelta tecnologica che spetterà al mercato”. Il che equivale a lasciare irrisolta la scelta tra il rame, potenziato dalle recenti applicazioni del vectoring, e la fibra ottica pura, che attende solo di entrare nelle case.
Certo, lo Stato una sua idea di cablatura ce l’avrebbe, ed è quella che propende per l’adozione del paradigma Fiber to the home, con l’eventuale supporto dei ponti radio laddove il collegamento con gli armadi telefonici stradali non fosse diretto; ma se tale orientamento non si tradurrà in direzione chiara gli operatori non si sapranno mettere d’accordo.
Troppo diverse le visioni e troppi gli interessi in gioco dei protagonisti, a partire da Telecom Italia, che oltre a essere ex monopolista e quindi difficilmente obiettiva nella vicenda è anche un importantissimo committente per l’indotto, da cui perciò potrebbe arrivare una forte resistenza a conservare lo status quo. Del resto, sostengono i detrattori di Ring, chi lo ha detto che il rame abbia già raggiunto il massimo livello di conducibilità del segnale? Per un’Italia che naviga sotto i 20 Mbps i margini di miglioramento potrebbero essere ancora ampi.
Un passo avanti significativo per sbloccare l’impasse, molto più che gli incentivi prospettati dal Governo per incoraggiare i player a “migrare dal rame”, sarebbe allora una decisione forte sulla governance della rete.
Ma qui qualsiasi interesse di pubblica utilità sembra venir meno di fronte al confronto tra uno Stato oggi convinto di voler mantenere il possesso dei propri asset strategici, anche a scapito della proprietà privata delle aziende coinvolte, e un ex monopolista, Telecom Italia, che non dà segnali di accomodamento verso il piano di una newco: Metroweb e Cassa Depositi e Prestiti sono già state rifiutate. L’internet delle Cose però ci aspetta.